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Si è conclusa con successo ieri 12 dicembre la mostra fotografica Tempus fugit inaugurata il 19 novembre presso la GAM, Galleria d’Arte Moderna di Catania. L’esibizione è inserita nel cartellone della 13ª edizione del Med Photo Fest ed. 2021, Festival incentrato sulla Fotografia d’autore contemporanea che quest’anno, sotto la direzione artistica di Vittorio Graziano, porta il titolo di Storie di Donne e varia Umanità. Nella doppia esposizione al femminile di Pánta rheî di Lisa Bernardini (che è anche giornalista, Ufficio Stampa e Presidente dell’Associazione culturale Occhio dell’Arte APS) e Claustrofobico Metropolitano di Marina Rossi, le due fotografe, allieve del celebre Franco Fontana, hanno proposto due differenti interpretazioni visive dello stesso quesito filosofico sul quale si interrogava Virgilio nelle Georgiche: l’inarrestabilità inesorabile del tempo.

“Da poco, esattamente il 9 dicembre, il nostro Maestro Franco Fontana ha festeggiato 88 anni – racconta Lisa Bernardini a Mediterranea –. Tempus Fugit personalmente la dedico a lui. Lo faccio con profonda memoria, gratitudine e riconoscenza verso colui che ha creduto fin da subito nelle mie potenzialità. Franco Fontana è stato l’incontro più determinante per la mia formazione professionale. Dal punto di vista umano, infine, è per me un affetto sincero ed irrinunciabile, al pari di un padre putativo”.

Fontana di Roma da Pánta rheî di Lisa Bernardini

Le immagini fotografiche emergono dalla memoria ancestrale delle due artiste, “ispirate dal movimento perpetuo e incessante delle forze della natura” – come sottolinea Lisa Bernardini – a voler ribadire la scansione inarrestabile e ineluttabile dell’avanzare del tempo e delle stagioni di un’esistenza mutevole e, nel contempo, permanente. Un divenire, inteso come mutamento, perenne nascere e morire delle cose, che può tuttavia essere colto nell’eterno istante di uno scatto e che nel progetto Pánta rheî, titolo che richiama il celebre aforisma attribuito al filosofo Eraclito di Efeso, “è rappresentato – come spiega la fotografa Bernardini nelle dichiarazioni rilasciate ad Adnkronos/Labitalia prima dell’apertura della mostra – in maniera simbolica dall’acqua che scorre nelle pieghe della storia (di Roma e nelle sue fontane, nello specifico), mentre in Claustrofobico metropolitano il susseguirsi continuo delle nubi verso mete lontane, ma non identificabili, mette in scena il desiderio illusorio di raggiungere il proprio appagamento interiore”. Da una parte il flusso trasparente e limpido delle fontane simbolo della Città Eterna, dall’altra il loop ossessivo dell’alienazione metropolitana: le immagini scorrono come visions fugitives di un eterno inafferrabile presente.

Fotografia da Claustrofobico metropolitano di Marina Rossi

“Sia nel mio lavoro – continua la fotografa – che in quello di Marina sembra quasi levarsi una chimera di onirica immortalità, o perlomeno è questo il nostro desiderio. Confidiamo che i visitatori si immergano nelle nostre visioni e le apprezzino anche con il senso dell’udito”.

Un’esposizione in tal senso multisensoriale, in cui l’esperienza visiva è accompagnata da una melodia donata per l’occasione dal compositore e direttore d’orchestra Stefano Mainetti, docente di Musica applicata alle immagini al conservatorio di Santa Cecilia di Roma, e tratta dal progetto Rendering revolution, in un’ottica di contaminazione tra linguaggi diversi.

Lisa Bernardini
Lisa Bernardini con Marina Rossi e Vittorio Graziano all’inaugurazione della mostra

“La fotografia con le sue opportunità può rappresentare una scelta aperta nel campo teoricamente infinito del fotografabile – scrive il noto critico fotografico Enzo Carli nella recensione del progetto – Lisa Bernardini e Marina Rossi si sono prefisse di cogliere le trame e i rapporti tra i differenti atteggiamenti della vita immaginifica instaurando un rapporto, tra fotografia e i suoi dintorni, profondo e necessitato, realizzando un articolato e singolare progetto fotografico che ha privilegiato lo spazio-il tempo esistenziale, l’immaginario reale, privato e collettivo”. Nello spazio congelato e sospeso della posa – conclude Carli – paesaggi del cielo interagiscono con sculture del tempo come reperti della memoria ritrovata, come proprio vissuto, come condotta auto-rivelativa volta a raccontare sé e le proprie esperienze, modelli comportamentali e simboli generazionali fino alla contemplazione del soggetto rappresentato”.

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