Articolo di Morena Deriu
Era il 1996 quando un giovane Alejandro Amenabar (allora appena ventiquattrenne) vinceva ben sette premi Goya (tra cui quello per la miglior pellicola), con il suo primo lungometraggio nei panni di regista: Tesis. Un esordio di tutto rispetto, che apriva la strada a uno dei pochi registi stranieri sbarcati, qualche anno più tardi, con successo a Hollywood (senza, peraltro, vendersi totalmente alle regole del cinema mercato nord-americano).
Se in molti conoscono le “hollywoodiane” (e più recenti) The Others con Nicole Kidman (vincitrice di otto premi Goya e film più visto del 2001 in Spagna e negli Stati Uniti) e Agorà (la sua ultima produzione del 2009, uscita con un noto e discusso ritardo nelle sale italiane), sono forse meno quanti hanno visto e apprezzato Tesis, la pluripremiata pellicola di esordio.
La trama è semplice: Angela (Ana Torrent) sta scrivendo una tesi di dottorato sulla violenza audiovisiva, quando, improvvisamente, il suo direttore di tesi muore, proprio dopo essersi imbattuto in una pellicola. Insieme a Chema (Fele Martínez), un compagno di università, la ragazza ruba e visiona la pellicola: si tratta di uno snuff-movie, un video amatoriale in cui sono mostrate le torture e l’assassinio, reali, di una ragazza. I due iniziano a investigare e in un’atmosfera densa e tesa (amplificata da un’eccellente e premiata colonna sonora, scritta dallo stesso Amenabar con Mariano Marín), i due rischiano di trovarsi al centro del prossimo snuff-movie.
Amenabar e il suo Tesis portano, dunque, essenzialmente in scena una storia sopra la violenza televisiva, di cui gli snuff-movies rappresentano solo il caso limite, tra pornografia, a dir poco, spinta e vere e proprie torture e violenze. Il tutto senza mostrarne una sola scena ma attraverso suoni, rumori, grida, che rappresentano la sola violenza di cui lo spettatore reale (quello del film di Amenabar) può godere.
Già, perché per quanto la maggior parte del pubblico non possa non simpatizzare con Angela e la sua critica della progressiva demistificazione, da parte dei media, di vecchi tabù come sesso, morte e dolore, quello stesso pubblico, esattamente come Angela, si sentirà a tratti morbosamente attratto da quella stessa violenza e, come la protagonista, magari tornerà sui propri passi per vedere il corpo dilaniato di un suicida sotto il treno della metropolitana.
Come non uscire dalla “finzione” cinematografica e non entrare nella “realtà” di certo giornalismo televisivo moderno, che spesso si sofferma (e si è soffermato) su fatti di sangue, con dovizia di dettagli anche visivi (i plastici di Porta a porta sono, ormai, passati alla storia della televisione) sul numero e la posizione delle coltellate, quasi dimentico che sono state inferte a una persona in carne e ossa? Probabilmente, non c’è telegiornale o programma di cronaca che non abbia mandato in scena le immagini del reggiseno insanguinato di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte del 1 novembre 2007. Rientrava veramente nel sacrosanto diritto/dovere all’informazione o si stava pericolosamente sconfinando nello splatter?
Domande come queste non sono certo una novità. Nel 2012, lo scrittore, giornalista e opinionista Mariano Sabatini pubblicava È la tv, bellezza!, un’analisi dal sottotitolo indicativo: Se la conosci puoi difenderti, chiedendosi in cosa fosse cambiata, negli ultimi anni, la televisione italiana.
I nuovi format e la diffusione della tv a banda larga continuano, infatti, a sfornare prodotti in cui realtà e fantasia si contaminano in continuazione, come fatti godibili e ripugnanti, mentre la vita intima e privata dei suoi “nuovi” protagonisti è sbandierata ai quattro venti; il tutto a qualsiasi ora del giorno e, si potrebbe dire, quasi in barba a qualsiasi Codice di regolamentazione per i minori.
Già, perché se in sé il termine “splatter” (perché è di questo tipo di televisione che si sta parlando) indica più pertinentemente qualsiasi genere di spettacolo che ostenta violenza e si compiace di scene truculente (esattamente ciò di cui parlava Amenabar nel 1996), dovremo, invece, interrogarci sul “nuovo“ splatter televisivo, per lo meno nelle fasce orarie cosiddette “protette”, quando si rispetta sì il “divieto” di non mandare in scena immagini cruente, ma ci si sofferma compiacenti e con dovizia di dettagli sulla loro descrizione. Francamente, bisognerebbe interrogarsi su cosa queste descrizioni trasmettano all’immaginazione di un bambino che si trova davanti alla tv, durante una “fascia protetta”.
Insomma, basta il sangue a fare di un film o di un programma televisivo uno splatter o è necessario rivedere la cosa alla luce della morbosa spettacolarizzazione della vita privata (di cittadini qualsiasi e non solo) nelle mani dei più gettonati talk show televisivi?
Il film di Amenabar si interrogava, attraverso le parole di Jorge Castro (Javier Elorriaga), il nuovo direttore di tesi di Angela, su cosa dovessero dare il cinema e la televisione al proprio pubblico. Il professore non avere dubbi: «lo que quiere ver», “ciò che vuole vedere”. Se è la violenza che vuole, che violenza sia; e se la parola “violenza” è troppo pruriginosa per i “salotti bene” dei talk show italiani, niente paura; la si può ammantare con finti perbenismi e appelli a un ormai svilito diritto alla cronaca, in nome del “dio” audience.
Al di là dei moralismi e della più che condivisa condanna per i fatti di sangue, questi risvegliano, infatti, in almeno una parte del pubblico, una morbosità razionalmente inspiegabile e su cui molti programmi hanno scelto di fare presa. In quanti di fronte alle scene di sangue (anche e soprattutto reali) o alle loro spettacolarizzate descrizioni, cambiano canale? In quanti, invece, continuano a consumarle, in maniera quasi patologica, come suggeriscono le scene finali di Tesis? E dove finisce il sacrosanto diritto/dovere all’informazione e lascia spazio alla morbosità?
Possibile che il cinema e la televisione ne siano i soli “responsabili” o la loro unica “colpa” sia quella di far leva su una sorta di curiosità atavica, l’eterno dilemma tra bene e male, tra carne e spirito, in cui la specie umana si dimena almeno dall’“epoca” di Caino e Abele?
Senza moralismi e questioni di principio, Tesis parla di questo e molto altro ancora; è una riflessione sul futuro del mercato audiovisivo e, dunque, tanto del cinema quanto della televisione. Quanto contano e conteranno in questo mondo le pressioni economiche? In un paese come l’Italia, dove uno dei principali esponenti della vita politica è anche il fondatore della più grande azienda mediatica privata, questa domanda continua a essere di estrema attualità.
E, ancora, quanta legittimazione la violenza e lo “splatter” in generale possono trovare all’interno del cinema e anche e soprattutto dei sistemi di informazione e della televisione che guardiamo tutti i giorni? Che conseguenze può portare tutto questo sul suo pubblico (minori in prima fila)? Quanto è lontano o vicino il rischio che si finisca assuefatti alla violenza, alla spettacolarizzazione della vita privata e si perda contatto con il mondo reale?
I reality show continuano a spopolare; il Grande fratello, “papà” di tutti i reality, promette per quest’anno una tredicesima edizione (dopo una pausa “sabbatica” di oltre un anno e mezzo) e sul digitale terrestre è sbarcato Real Time, un canale di intrattenimento incentrato sulla “vita reale”, attraverso storie ed esperienze vere (e, talvolta, splatter nel significato proprio del termine). Dopo diciassette anni, Amenabar e il suo Tesis fanno riflettere e forse ancora più di allora. È allora giunto il momento che, dopo il cinema, anche la televisione cominci seriamente a interrogarsi sulla direzione che buona parte di essa sta prendendo e su quale rotta questo mezzo, di forte presa sulle masse, voglia continuare o cominciare a seguire.