Cagliari.
Il 4 Aprile al teatro Massimo è andato in scena “Titu Andronicu – Sa Mudadura”, l’adattamento teatrale della tragedia shakespeariana del Tito Andronico, prima opera tragica del celebre drammaturgo inglese, con la regia di Daniele Monachella, attore e regista sassarese.
La tragedia parte del circuito “Sardegna Teatro – Teatro Massimo” , progetto che si pone l’obbiettivo di rappresentare la definitiva trasformazione del Teatro di Sardegna in Teatro di Rilevante Interesse Culturale, si distingue subito per un dettaglio molto importante: è interamente recitata in lingua sarda. Un connubio interessante, a tratti si potrebbe dire rischioso, ma che risulta vincente alla luce delle vicende narrate dal Tito Andronico stesso.
L’opera coinvolge immediatamente lo spettatore che si ritrova proiettato in un luogo dominato da giochi di potere, sete di vendetta, brutalità, sensualità che si fondono insieme per dar seguito ad uno spaccato di vita che attinge agli istinti primordiali, alle passioni, ai vizi fini a se stessi, temi che forse non sono da proiettare esclusivamente in un passato ormai lontano e archiviato.
Ma chi è Tito Andronico? Chi rappresenta il protagonista di tali funeste vicende?
La storia, ispirata alla leggenda di Filomela e Procne presente nelle “Metamorfosi” di Ovidio, narra del generale romano Tito che, dopo aver combattuto i Goti al confine con l’impero, ritorna in patria. Con sé porta alcuni prigionieri, tra cui la bellissima Tamora che giura vendetta contro Tito dopo che questi ha sacrificato il primogenito della donna. Dopo la morte dell’imperatore, Tito sarebbe destinato a prendere il suo posto, ma egli rifiuta e contribuisce all’ascesa al trono di Saturnino, quest’ultimo innamorato della figlia di Tito, Lavinia, da cui però viene rifiutato. Come conseguenza di tale rifiuto e attratto dalla bellezza di Tamora, che intanto intrattiene già una relazione con Aronne, Saturnino la sposa e insieme tramano vendetta contro la famiglia di Tito: la prima a pagare sarà propria Lavinia, che verrà stuprata e mutilata dai figli di Tamora.
Da queste terribili premesse nasce il seme della discordia e germoglia alimentato dalla sete di vendetta e di potere fine a se stesso e risulta chiaro che da tali radici le conseguenze saranno tutt’altro che floride. Come ammette lo stesso Aronne, una volta compiutosi il suo destino: “Se mai ho commesso una sola buona azione in tutta la mia vita me ne pento dal profondo dell’anima” e, in questa frase, con la quale si conclude l’intera tragedia, è riassunta la sua quintessenza, il tema principale, che pervade l’intera opera.
Tuttavia, lasciando per un momento da parte la trama shakespeariana, materia di base eccezionale dalla quale è lapalissiano non si possa prescindere, la rappresentazione di Daniele Monachella merita diversi plausi: primo fra tutti il pathos ed il dramma sono presenti durante tutta la rappresentazione dell’opera, inoltre, la scenografia, essenziale ma di grande impatto visivo, i costumi e la bravura degli attori tra i quali è presente lo stesso Monachella nel ruolo di Aronne, si fondono in un mix vincente che coinvolge lo spettatore fin dall’inizio. Tale riscontro di pubblico non poteva essere dato per scontato in quanto la rappresentazione in lingua sarda avrebbe potuto costituire un muro e creare disattenzione da parte degli spettatori in quanto non tutti conoscevano e riuscivano a comprendere il linguaggio proposto. Proprio da quest’ultimo punto nasce il secondo merito da attribuire a Daniele Monachella e alla sua rappresentazione, ovvero se da un lato la lingua sarda poteva rappresentare un grosso rischio, è encomiabile anche il coraggio del regista che si cimenta con uno dei più grandi drammaturghi e poeti della storia, e anche quello di farlo in una lingua appartenente ad una cerchia ristretta della popolazione e degli spettatori, destinatari ultimi del prodotto teatrale proposto.
“Titu Andronicu – sa Mudadura” ha rappresentato più di una reinterpretazione dell’opera shakespeariana, è stata una scommessa, un connubio vincente, che appassiona, coinvolge e convince, lasciando lo spettatore senza fiato e con diverse riflessioni dinnanzi a sé. La Sardegna è presente in questa rappresentazione non solo tramite il linguaggio, parte preponderante, ma anche attraverso alcune immagini suggestive del paesaggio rurale e portuale tipico sardo, che sono state proiettate durante lo spettacolo.
Infine, sempre a proposito della scelta di utilizzare la lingua sarda, è doveroso fare alcune precisazioni: intanto, come è stato più volte sottolineato, entrambe le lingue, l’inglese, lingua originale della tragedia e il sardo, sono ambedue di carattere pragmatico, per cui la rappresentazione, nonostante il cambio di lingua, rimane credibile. Inoltre, nonostante alcuni passaggi non fossero esplicitamente chiari e comprensibili per via della specificità del linguaggio utilizzato, la trama avvincente è stata sufficiente affinché gli spettatori rimanessero ancorati e seguissero la storia come se ne fossero quasi ipnotizzati. Non solo la trama, ma anche le scene cruente hanno svolto un ruolo cruciale nell’attirare l’attenzione e, non di meno, i costumi dichiaratamente ispirati al folclore sardo e le maschere imponenti, quelle dei giganti di Mont’e Prama sono stati anch’essi un ingrediente decisivo per coniugare tradizione e innovazione.
Queste operazioni hanno la duplice funzione di caratterizzare l’opera, ma anche di promuovere il patrimonio culturale dell’isola, mettendo in risalto i suoi tratti più caratteristici e accettando la sfida di proporlo al pubblico senza alcun tipo di filtro. Tale proposta ha già trovato diversi consensi in prodotti cinematografici e televisivi, per citare un esempio, la pluripremiata serie tv “Gomorra” ideata da Roberto Saviano e basata sul suo omonimo romanzo, con la regia di: Stefano Solima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini e Claudio Giovannesi.
Una valorizzazione culturale e linguistica che ha già dato prova di essere molto apprezzata, specie se collocata all’ interno di una cornice narrativa caratteristica che appassiona lo spettatore proprio in virtù delle sue specificità, non più ostacolo o muro, ma strumento essenziale per la realizzazione dell’opera. Nel caso poi del regista sassarese e dell’ adattamento del Tito Andronico, il lavoro era una doppia sfida, in quanto la materia prima è stata ripresa da una tragedia inglese di fine Cinquecento. Una sfida, quest’ultima, che si può considerare vinta data la risposta entusiasta del pubblico in sala che è stato catapultato in questo “non-luogo” dominato dagli istinti più bestiali e primordiali e che ha fatto fatica a lasciare.