Share

Esiste senz’altro una datazione storica precisa per la consacrazione della pizza e viene fatta risalire all’anno 1889, periodo in cui Raffaele Esposito, provetto pizzaiuolo di Napoli, portò con sua moglie Rosa Brandi una pizza in omaggio alla regina Margherita di Savoia, onorandola di una preparazione che ricordasse il tricolore e battezzandola col suo nome: essa era composta da sottili fette di mozzarella del tipo fior di latte disposte a raggiera sul pomodoro su cui venivano poi aggiunte foglie di basilico.

Alcune fonti riportano Raffaele fosse proprietario della “pizzeria da Pietro e basta così” fondata già nel 1780, mentre altre lo danno titolare della “pizzeria Brandi” situata in via Sant’Anna di Palazzo, ma a prescindere dal dubbio sono stati recentemente effettuati studi più accorti su alcuni importanti testi dell’epoca che dimostrerebbero l’invenzione della margherita fosse anteriore all’ingegnosa trovata di portarla a corte con quelle belle trovate commerciali: infatti, mediante la lettura di “Napoli, contorni e dintorni”, libro di un autore noto come Riccio risalente al 1930, e del secondo volume del libro “usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” del filologo Emmanuele Rocco, scritto a partire dal 1853 e la cui edizione venne curata e pubblicata da Francesco De Bourcard nel 1858, compare la descrizione della preparazione della margherita coi suoi tipici ingredienti ben prima della sua celebrazione dinanzi alla nobiltà.

Che si tratti di leggende o meno fatto sta che per quanto la pizza margherita sia la più famosa al mondo, e tra le più efficaci ambasciatrici del made in Italy, essa non rappresenta la prima vera espressione della pizza napoletana… lo stesso Francesco De Boucard asserisce che “le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite con lo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle… Talora ripiegando la pasta su sè stessa se ne forma quel che chiamasi calzone» e del goloso disco di pasta lievitata se ne parla nell’opera letteraria “Le Corricolo” di Alexandre Dumas padre nel 1835.

A dirla tutta la pizza nasce come fenomeno gastronomico di cultura squisitamente popolare a Napoli, precisamente a cavallo tra il ‘500 ed il ‘600 e, prima di essere canonizzata nelle sue più tipiche espressioni, veniva assaporata nella versione “mastu Nicola”, condita col lardo ed i cigoli, il formaggio di pecora, il pepe ed il basilico, ed in quella detta coi “cicinielli”, ossia con gli avannotti di sarde ed alici. Perché la pizza si mariti col pomodoro bisognerà infatti aspettare il ‘700.

Insomma l’iperbole evolutiva della pizza riunisce per forza di cose l’antichissima tradizione di produrre pane schiacciato come il “plakous” greco, la focaccia etrusca, la pita mediterranea e balcanica, la spianata sarda e tutta una serie di espressioni tipicamente mediterranee, interpretate a seconda della cultura che nel tempo e nel luogo vi hanno dato forma, fino al momento in cui la “pinsa” ha preso la forma, la sostanza, i profumi, i colori ed i sapori come solo a Napoli poteva accadere, diventando il cibo da strada nazionalpopolare, piuttosto che una soffice e calda pagina bianca su cui fantasisti gourmet trascrivono le loro creative ed esose ricette, fino alla sua espressione più tecnologica: si pensi che la Nasa ha finanziato la startup statunitense BeeHex perché producesse un prototipo di  printer 3D in grado di stampare la pizza a partire dalla miscela di acqua ed ingredienti in polvere, una ricerca costata ben 125.000 dollari nel 2016.

E se la pizza può volare nello spazio sidereo non è affatto difficile sostenere, saldamente ancorati coi piedi piantati per terra, che col sake ci sta proprio bene, anche perché è sempre dalla Madre Terra che partiamo: come il grano per la pizza ed il riso per il sake si inizia sempre dai rispettivi cultivar, dal clima, dal terroir e dalla sostenibilità ambientale del modello agricolo prescelto, fattori imprescindibili per ottenere farine biologiche e sake artigianali di gran pregio. Naturalmente l’appeal cerealicolo è un fattore incidente tanto nell’impasto della pizza quanto nel moromi per il sake ma non costituisce l’unico elemento… l’azione fermentativa dei lieviti infatti mette anch’essa in parallelo una delle protagoniste indiscusse della Dieta Mediterranea con Fermentato Giapponese, linee che vanno piacevolmente a ricongiungersi a tavola.

La lievitazione e la maturazione della pizza imprimono un sapore ed una consistenza a seconda del procedimento dell’impasto che può essere diretto, semidiretto e indiretto, oltre che dalla tipologia di farina e dalla sua forza, ossia dalla sua capacità di assorbire acqua e quindi al glutine in essa contenuta. Se usassimo l’impasto diretto con farine di grano tenero, raffinate ed innesco con lievito di birra come punto di partenza e l’impasto indiretto, il quale prevede un pre-impasto, con farine di grano duro ed innesco con lievito madre come punto di arrivo, constateremmo che la complessità dei sentori cerealicoli sarà crescente e direttamente proporzionale al tempo di lievitazione, alla complessità del procedimento, alla maturazione ed alla ricchezza di microorganismi contenuti nel lievito impiegato. Effettivamente il metodo indiretto col lievito madre conferisce alla pizza una maggiore digeribilità ed alveolazione, ma soprattutto maggiore intensità in fragranza, profumo e gusto di frumento.

Nel rispetto di questa intensità crescente, a partire da un impasto diretto e più semplice in termini gustativi, un abbinamento con un Sake Junmai più delicato e con una sbramatura del chicco maggiore sarà certamente indicato mentre, a mano a mano che andremo ad impiegare farine, processi fermentativi e di maturazione più complessi, lo stesso Sake Junmai col quale fare match dovrebbe preservare una maggiore integrità del chicco di riso in misura di una levigazione decrescente di modo che si accentui nel sake la stessa valenza cerealicola e gusto olfattiva che riscontriamo in una pizza, creando una sintonia tra cibo ed elemento liquido.

Naturalmente questo è un ragionamento di base che spinge sia l’addetto ai lavori che il sake lover a ragionare su criteri di abbinamento deducibili dalle similitudini che intercorrono tra i processi fermentativi dei due elementi e sulle assonanze gusto olfattive che si riscontrano nei profumi di un grande impasto da pizza e determinate tipologie di Nihonshu e, se stessimo disquisendo su una gustosissima focaccia, potremmo anche fermarci qui.

In realtà questa logica è soltanto il preludio per creare abbinamenti più specifici in ragione degli ingredienti che andranno sulla pizza, modificandone la struttura: tenendo sempre conto di questo criterio andremo a ricercare sake con specifiche proprietà organolettiche in misura delle materie prime impiegate per la pizza, come in un gioco di aggiunte e sovrapposizioni.

Se diamo per assodato che ad una farina e ad un impasto semplice corrisponda un sake junmai con una buona raffinazione del riso e non troppo persistente, aggiungendo del pomodoro San Marzano ed un Fiordilatte di Agerola avremo bisogno di un sake con un certo apporto di sapidità e magari dei profumi lattici per via della tendenza dolce di entrambi gli ingredienti; se per la stessa pizza utilizzassimo la mozzarella di Bufala invece del Fiordilatte il sake dovrebbe poter avere un corpo maggiore ed anche una buona acidità per detergere il palato dalla grassezza del latticino, magari un Tokubetsu Junmai fragrante e dal tocco salino, oppure un Honjozo che contenga profumazioni lattiche e cerealicole al tempo stesso quando dal cornicione di una bella pizza margherita si sprigiona il tipico profumo da lievito madre. Un sake che faccia sfoggio di note erbacee ed un buon equilibrio gustativo potrebbe essere un ottimo compromesso con una pizza con pomodorini di Corbara, rucola e scaglie di Parmigiano. La pizza marinara col suo piacevole profumo di aglio ed origano, piuttosto che una pizza napoletana con in aggiunta qualche oliva nera di Itri e l’acciuga di Cetara sono un esempio di umami tipicissimo della Cucina Mediterranea e che si abbinano rispettivamente sia con un rifrescante Junmai Ginjo che ad una versione di Junmai Ginjo più speziata e persistente… quest’ultimo sake meriterebbe di essere assaggiato persino nella versione con pomodorino giallo del Piennolo, acciughe di Menaica e cacioricotta di capra del Cilento. E con una pizza al pomodoro con tonno e cipolle che ne direste di un Junmai Genshu?

Insomma la triangolazione tra tipo di farina, tecnica di impasto ed ingredienti utilizzati sulla pizza è un’ottima strategia per stabilire l’abbinamento ideale col sake in cui la carta vincente resta sempre la voglia di scoprire nuove sensazioni gustative.

LINK CONSIGLIATI: www.firenzesake.com

Leave a comment.