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Negli ultimi anni sembra che in Campania e più in generale nel Sud Italia, manco il tempo che arrivi il Natale, tutti vogliono il panettone… dai consulenti finanziari ai pescivendoli, dagli avvocati ai gommisti, fino agli imprenditori della ristorazione, sembra che nessuno, persino in piena ondata covid, intenda rinunciare ad avere il suo bel panettone artigianale.

Ma cosa c’è di male direte voi?

Francamente nulla, tanto più che quando è fatto bene ed è genuinamente artigianale confesso che anche io ne gradirei volentieri una fetta o due, però il fatto è che nessuno più ormai resiste alla voglia di averne qualcuno tutto suo… ed intendo proprio un panettone studiato a tavolino, magari con qualche grande firma della pasticceria dietro da tenere nascosta e far trapelare poi al momento giusto, un panettone bello, lievitato e brandizzato di tutto punto, con un package tutto fiammante, messo a punto perché richiami la propria attività economica anche se fosse lontana anni luce ed atipica rispetto alla produzione dolciaria da forno.

Un onesto imprenditore, vi chiederete, dovrebbe forse rispondere sul come intenda spendere il proprio denaro o chiedere il consenso di qualcuno per investire in nuove strategie di marketing proponendo la vendita di prodotti cosi amati e richiesti dai consumatori come quei morbidissimi e variegati panettoni?

Assolutamente no! Mi chiedo semplicemente se gli artigiani dell’arte pasticcera e della panificazione non abbiano forse già i loro bei grattacapi da risolvere: tra competitor che dicono di sfornare prodotti artigianali, artigianali ma a tiratura pressoché illimitata e con tutta la critica gastronomica schierata al loro fianco, prodotti industriali ultra presenti nella grande distribuzione ed il pesante calo di fatturato dovuto alla pandemia, io la vedrei già piuttosto dura così. E adesso ci mancava soltanto che degli imprenditori che provengono da altri settori commerciali si mettano a fare il loro bel prodottino natalizio, o no?

Niente da fare: pure Pino Daniele ci ricorda in keep on movin’ che ‘ncoppa ‘e sorde ‘a gente nun guarda ‘faccia a nisciuno.

Vi pare poco?

In effetti una giustificazione però bisognerebbe trovarla in qualche modo: credo si tratti di un volto speculare questo, l’altra faccia della metà di questo forsennato business del panettone a tutti i costi anche in Campania, e dell’educazione alla spesa in via generale, è quella del consumatore stesso e della sua corsa nell’ottenere per forza le cose; senza probabilmente saper mangiare o più semplicemente senza voler rinunciare a nulla, siamo noi ad autocandidarci come polli da spennare per questo tipo di mercato…  vogliamo tutto, lo vogliamo tutto l’anno e nel volerlo mettiamo in moto la macchina della domanda e dell’offerta, attuando la politica planetaria del cibo più stolta e nociva che si sia mai vista e per pura golosità; tendiamo persino a scambiare tutto ciò per lusso, per esclusività, per status sociale alla faccia della sostenibilità, parola con la quale tendiamo a riempirci la bocca durante qualche conversazione radical chic per gastrofighetti… e chi fiuta l’affare è più che ben disposto a concedere a noi, baldi gourmet della domenica, ciò che in fin dei conti siamo noi a volere, magari assecondando la dubbia ma furbissima formula del “più è caro e più è buono”… tanto chi vende sa giustificare il costo del prodotto con arguti storytelling e food fiction, sanno addurre al fatto che il food cost sia gravato da ingredienti rari ed esotici: ma vuoi mettere la costosissima vaniglia di vattelapesca, che sfiderei i produttori per prima a riconoscerla fra le tante tipologie a panettone fatto, figuriamoci uno che non è del settore e che non fa il sensorialista di mestiere a coglierne le suadenti e sottili sfumature tra canditi, burro ed aromi vari.

Eh, ma se a loro piace…

Apologia del marketing del consumo, elogio del prodotto fighetto e stigmatizzazione del prodotto ritenuto erroneamente sfigato, non di grido, boicottato per quanto confezionato amorevolmente da un artigiano locale, magari sconosciuto ma onesto ed operoso… no, non sono loro, che  si sforzano quotidianamente di realizzare un lavoro ben fatto ed a portare avanti le tradizioni antiche, quelle di quando eravamo bambini, ad essere considerate eroi: oggi si è eroe se fai i grandi numeri, se appartieni alla cricca, quella che poi ti sostiene con le recensioni “tanto a botta”, se esci in televisione e porti il cestino dei prodotti del territorio, un poco per fare scena, giusto per motivarne la presenza in ricetta, e un poco per lavarti la coscienza, senza manco sapere che fatica ci vuole a farlo venire su quel prodotto o come lo si debba raccogliere.

E chi lo paga tutto ‘sto ambaradan con in certi casi il 20% della produzione che se ne va tra campioni di assaggio per gli esperti, l’omaggio all’amico dell’amico, al pennivendolo di turno, ai generali delle varie forze armate ed al vigile ausiliario sotto casa?

Insomma, al diavolo lo spirito natalizio, la piccola produzione, le tradizioni e le tipicità… ma che ce ne fotte a nuje!? Il Natale è fatto proprio per poter ostentare la capacità di permettersi questo tipo di shopping, perché è lo shopping che ci fa belli mica la solidarietà… e cosa penserebbero del dono l’ingegnere, il dottore e l’architetto se non corrispondesse al panettone gourmet all’ultimo grido? E perché non premiare anche noi stessi, siamo tutti un poco dei bambini…  Il Natale in fondo è la vigilia di Carnevale con il Capodanno in mezzo, o no?

Se non vi pare ancora abbastanza, e non ve ne foste ancora accorti, ve ne conto un’altra: è esattamente così che si ammazzano le tradizioni e si inaridiscono territori, culture e piccole attività locali tanto più che, senza allontanarci troppo dal soffice tema, mi piacerebbe sapere di grazia…

Cosa diamine c’entra il panettone, e pure il pandoro, con la Campania?

E non venitemi a raccontare dell’ormai consolidata realtà dei grandi maestri e delle premiazioni che hanno collezionato grazie all’encomiabile produzione di panettoni di gran pregio, elaborati con ingredienti di indiscussa eccellenza e di appeal territoriale perché malgrado sia tutto vero, e quindi onore al merito dei conterranei che hanno fatto di questo lievitato un’arte sublime, il fatto è che la pasticceria campana quei magnificenti panettoni non li ha mai contemplati nella tradizione natalizia.

Divino Amore, Susamielli, Roccocò, Mustaccioli, Struffoli e Raffiuoli… ve li ricordate?

Originari del XIII secolo i dolci napoletani chiamati divino amore vedono i natali grazie alla creatività delle monache di clausura del convento del Divino Amore, nei pressi di San Biagio dei librai; pare che le suore preparassero questi manicaretti in occasione della venuta della madre di Re Carlo II d’Angiò, Beatrice di Provenza, e quindi per renderle onore; queste pastarelle consistono in una farcitura di mandorle, uova, canditi misti, qualche goccia di limone e confettura di albicocche.

Divino Amore

Il susamiello, detto anche sapienza, perché preparato dalle suore clarisse del convento di Santa Maria della Sapienza attorno al 1600, sembra avere addirittura origini più remote ed è fatto risalire all’Antica Grecia in quanto erede dei biscotti rituali preparati in onore delle divinità dei Misteri Eleusini, Demetra e Core. Un tempo nella ricetta era previsto anche il sesamo, mentre gli attuali ingredienti sono la farina, il miele, un trito di spezie tra cui cannella, chiodi di garofano e noce moscata, con infine le mandorle tostate.

Susamiello

I roccocò risalgono al 1320, quando furono le monache del Real Convento della Maddalena a prepararli, mentre il nome avrebbe etimologia dal francese “rocaille” per via della forma arrotondata a mo’ di conchiglia ed oggi più simile ad una ciambella; gli ingredienti prevedono zucchero e farina, cacao, cannella, garofano e noce moscata, mandorle oppure noci, carbonato di ammonio, vanillina e la buccia di due arance ed un limone.

Roccocò

Dalla tipicissima forma romboidale i mostaccioli o mustacciuoli costituiscono la versione moderna di un dolce tipico dell’antica Roma, focacce fatte di farina, mosto ed anice, menzionati anche da Catone: i mustacei, poi diventati mostazoli nel tardo Medioevo. La ricetta napoletana, priva del mosto, sembra sia sorta attorno al ‘500 ed il cuoco delle cucine vaticane, tal Bartolomeo Scappi, ne dà due versioni, descrivendoli come “piccoli pasticci secchi”. Il loro grande vantaggio consiste nella lunga conservazione e ci sono persone che li amano nella loro versione più asciutta e dura, mentre altri preferiscono la versione più morbida. Farina, mandorle, zucchero o miele, cacao amaro, scorza d’arancia, acqua e pisto, ossia il classico misto di spezie, sono i tipici ingredienti unitamente alla golosa glassa di cioccolato fondente che li ricopre.

Mostaccioli

Praticamente gli struffoli o strufoli sono quelli che in greco definiremmo i loukomades tanto più che il termine deriva proprio da stroggulos o strongoulos che in lingua greca significa appunto “di forma tondeggiante”; nel Mezzogiorno esistono diverse varianti dello struffolo e probabilmente la cicerchiata resta quella più famosa, ma questo classico dolce partenopeo, senza il quale non sarebbe Natale a detta di qualcuno, vede la sua più ampia diffusione intorno al XVII secolo grazie alle suore che ne facevano dono a quelle famiglie che si erano particolarmente distinte per atti caritatevoli. Verso la fine di questa epoca gli struffoli compaiono anche nel trattato di cucina di Antonio Latina alla voce “strufoli alla romana”, dizione che sottende l’attuale ricetta napoletana. Per la preparazione ci vogliono farina, burro, un uovo, dello zucchero, giusto un pizzico di sale, del succo di limone o di arancia ed un poco di vino bianco, olio per frittura, mandorle oppure canditi, confettini colorati e del buon miele. Ed a proposito di miele: più piccole sono le palline e più aumenta il rapporto tra la pasta fritta ed il nettare delle api.

Struffoli

I raffioli, o raffiuoli per dirlo in lingua napoletana, sono quelle pastarelle di forma circolare o ellittica riconoscibili per la loro glassa bianca; la ricetta ci viene tramandata dalle monache benedettine del convento di San Gregorio Armeno e risale al 1700. Raffiolo deriva probabilmente da raviolo proprio perché pare che da essi abbiano avuto ispirazione. Esistono almeno due versione di raffiuoli: una con farcia semplice e l’altra con la stessa farcitura della cassata.

Raffioli

Ma voi ve lo immaginate il grande Eduardo De Filippo, nei panni di Lucariello di Natale in Casa Cupiello, chiedere a Nennillo con una guantiera di queste squisitezze “te piace ‘o susamìello a papà” e Tommasino a rispondere “no, nun me piace… voglio ‘o panettone”.  Nel terzo atto della famosa commedia napoletana arriverà la conversione per il giovane fannullone, ci sarà una conversione tale da trasformare il consumatore meridionale in un figlio più devoto e legato alle sue più autentiche tradizioni?

Ah prima che dimentichi… d’accordo, la pastiera napoletana è un classico della nostra pasticceria a pieno titolo, ma almeno aspettate fino a Pasqua prima di mangiarla perché in fondo anche i dolci hanno i loro rituali e la loro stagionalità. Non siate bambini ma cercate piuttosto di conferire ai fanciulli il vero senso di queste festività, dando proprio quell’esempio che serve a farli diventare adulti migliori di noi.

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