Da poco più di un mese a questa parte, con una grafia e una pronuncia non sempre corretta, sentiamo parlare di un Paese a noi vicino ma di cui conosciamo molto poco, quasi nulla.
Negli ultimi anni si sono aperte finestre informative intermittenti, basate su macro generalizzazioni di carattere economico e politico, che ci indicavano come la Libia fosse uno Stato esportatore di petrolio ed internamente “stabile”, imperniato su di un granitico monolite sempreterno ed inaffondabile, pittoresco nell’agire ed affidabile nel contenere eventuali invasioni non volute o non intese gestite direttamente dall’Europa. Le parole maggiormente utilizzate nei discorsi ufficiali, nei rapporti bilaterali, nella stampa dell’oltremare settentrionale scandivano l’esistenza di quell’unico binomio, quasi come ad affermare l’appartenenza di quel lembo di terra d’Africa mediterranea ad un’unicum affaristico privo della dovuta attenzione per i suoi abitanti, considerati poco numerosi, poco sviluppati, controllati assiduamente dai meccanismi repressivi di regime quando non eternamente fedeli al despota.
Un concentrato di generalizzazioni banali, spesso irritanti, spesso fuorvianti, come è sovente accaduto nel nostro rapporto con il Maghreb, forse la causa che ci ha fatto sobbalzare di scatto, sorprendendoci nei tempi e nei modi di questi recenti sconvolgimenti nell’area e che ci invita certamente ad una riflessione critica. Scivolano come schegge impazzite nella nostra mente e nella nostra memoria parole indicanti città come Zawiyyah, Nalut, Tripoli, Sirte, Darnah, Ajdabiyya, Benghazi, Tobruq …E ci accorgiamo che in realtà non si tratta di ingenua estraneità ma di dimenticanza attiva, relativa a quel periodo coloniale iniziato esattamente cent’anni fa allorquando “La grande proletaria” si mosse alla conquista della presunta, propria appendice mediterranea, dichiarando una guerra per il prestigio di occupare e poi sviluppare il territorio altrui, calpestando il suolo indigeno, lasciando tracce di morte e violenza nel progetto egemonico di imporre un nuovo modus. Un disegno tragicamente folle, quello di trasformare uno Stato arabo e berbero in una colonia di popolamento, quello di sovrapporre e soggiogare l’altra civiltà, considerata inferiore e “traditrice”, sostituendola con quella di un altro Paese, di un altro popolo, parte del quale ha certamente vissuto, sognato e lavorato quella terra con dedizione, specie in quel “mondo a parte” costituito dai metafisici edifici dei villaggi colonici pianificati e creati con sorprendente celerità dall’Ente per la colonizzazione durante il Governatorato Balbo, lo stesso che da allora coniò il termine Libia per indicare l’unione delle tre regioni storiche di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.
Nel complesso del disegno di dominio e sradicamento che il regime fascista volle imprimere nelle coscienze dei coloni e dei sudditi si utilizzò questo termine evidentemente nell’ottica di recupero della romanità, riferendosi alle province di Libya superior et inferior di epoca dioclezianea, dimentichi del fatto che l’accezione latinizzata Libia deriva dall’entità tribale berbera dei Libou e venne in seguito mutuata dai greci per designare tutto lo scibile ad occidente dell’Egitto.
A quel progetto e a quell’occupazione si erano opposti i libici, soprattutto nella regione orientale, guidati dal leggendario ‘Omar al Mukhtar, insegnante di una scuola coranica divenuto il leader della rivolta contro l’occupazione italiana nell’area e che fu condannato all’impiccagione dopo un processo farsa, al termine di una lunga lotta di resistenza.
“Noi non ci arrenderemo: vinceremo o moriremo”: questa frase, a lui attribuita, viene ripetuta spesso dai giovani ragazzi di Benghazi, la seconda città libica più popolata e cuore della rivolta scoppiata il 17 febbraio scorso contro il regime ultraquarantennale di Mu’ammar al Qadhafi. Quello dell’autoproclamato colonnello è un folle progetto di contro-stato personalista e populista, definito paradossalmente dal 1977 “Jamahiriyya”, ossia “Era delle masse”, in realtà una strategia radicale volta ad eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono tra la guida del paese ed il popolo, e si distingue nettamente tra una maschera formale di presunta partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica e un esclusivismo decisionale basato su di un ristretto entourage di intoccabili e difensori del potere in atto; di fatto, una proprietà semi privata del dittatore, che ancora oggi viene definito dall’emittente a lui fedele “Il fratello guida della rivoluzione”; nella quale è impensabile concepire ed ideare qualunque alternativa: nessuna formazione politica, associativa e culturale è ammessa, ed eventuali manifestazioni pubbliche di dissenso che osino rompere questo schema vengono combattute con le minacce, lo scherno, l’arresto, la detenzione, talvolta con la morte.
Lo sanno bene le madri e i parenti delle vittime della carneficina ordita dal regime nella prigione di Abu Salim, a Tripoli, nel giugno del 1996, quando 1200 detenuti vennero radunati e fucilati dai militari di questo penitenziario, e i cui responsabili tacquero per anni di fronte alle numerose richieste delle famiglie che chiedevano la verità e una degna sepoltura. La coraggiosa protesta di queste donne è continuata per anni ogni sabato nella piazza principale di Benghazi (la maggior parte delle vittime era originaria di questa zona), divenendo la base di partenza delle recenti rivolte ed abbracciando idealmente l’altro grande movimento civico, quello degli avvocati, che si sono radunati davanti al tribunale per chiedere riforme costituzionali.
Ne conoscono altrettanto a fondo le atrocità i componenti della minoranza berbera del Paese, da sempre emarginati dal regime socialmente e linguisticamente e che hanno fatto sentire la propria voce nell’area dell’altopiano del Gebel Nefousa, ad occidente, unendosi al movimento di protesta represso nel sangue dalle milizie fedeli a Qadhafi; il leader, infastidito da questo crescente flusso di dissenso, ha ordinato un perentorio soffocamento della rivolta attraverso l’uso spropositato ed inumano delle armi da fuoco, importate degli affarismi anche di casa nostra, trasformando il suolo libico in un campo di battaglia e costringendo gli oppositori a scegliere la lotta armata per sperare di sopravvivere ed esistere.
In questa situazione di assoluta incertezza sul futuro della Libia, l’auspicio è che le tante vittime civili di questa rivolta per la libertà non risultino vane, che il suolo insanguinato dalla follia dittatoriale non diventi la terra di conquista di nuovi avventurieri sprovveduti, che il coraggio di questa popolazione combattiva non venga utilizzato come scudo preparatorio ad un ricambio accomodante.