Articolo di Donatella D’Angelo
“La morte è la nostra eterna compagna”, disse don Juan in tono molto
grave. “È sempre alla nostra sinistra, a un passo di distanza. Ti stava osservando mentre spiavi il falco bianco; ti ha sussurrato all’orecchio e hai sentito il suo gelo, come lo hai sentito oggi. Ti è sempre stata ad osservare. Ti osserverà sempre fino al giorno in cui ti toccherà”.
“Viaggio a Ixtlan, le lezioni di Don Juan”
La morte per la maggior parte di noi non esiste. Continua a non esistere anche quando si vive quella altrui. Sentirci immortali è il meccanismo di difesa che ci permette di vivere come viviamo. Quando fotografiamo siamo soliti dire che immortaliamo qualcosa. La cultura delle immagini di morte è in continua evoluzione e questo senso di morte che colleghiamo alla fotografia è insito nel bisogno stesso che l’uomo ha di fotografare, perché in sé porta l’ambiguità di congelare la vita in uno scatto, ma allo stesso tempo sottrae il soggetto al processo d’invecchiamento.
Ci sono molti elementi che riallacciano direttamente il tema della morte alla fotografia, come dice Roland Barthes, nel suo saggio del 1980, La camera chiara “cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”.
(fig. 1) Hugo Victor (1802-1885) fotografato sul letto di morte da Felix Nadar (1820-1910). Legato alle fasi iniziali della fotografia Nadar fu fotografo, giornalista, scrittore e fumettista.
(fig. 2) Delle varie immagini del cadavere di Guevara questa è la più famosa: l’ostentazione del corpo inanime riguardante il rivoluzionario, monito del potere a tutti i ribelli, doveva chiudere definitivamente la pagina argentino.
Le foto dei morti, che fanno parte della storia della fotografia, evocano la morte in quanto oggetto, quindi l’immagine di un mondo che non c’è più. Ma la morte può essere associata alla fotografia come riproduzione di un’idea. Guardando il nostro ritratto possiamo identificarci nello sguardo di chi ci sopravviverà, dei nostri figli o nipoti.
(fig. 3) La pittrice Alice Neel fotografata nel 1984 da Robert Mapplethorpe. Ritratta sotto sua richiesta specifica qualche mese prima della sua morte con gli occhi chiusi, per vedere come sarebbe stata nel momento della sua morte.
La fotografia in relazione alla morte si pone anche come preziosa testimonianza dando consistenza e stabilità a una realtà labile e fin troppo mobile. Per sottrarre la vita, come dice Italo Calvino “all’ombra insicura del ricordo”.
(Fig. 4-8) Richard Avedon ritrae il volto di suo padre, Jacob Israel Avedon. Un’interpretazione personale del fotografo dei 7 anni trascorsi tra l’inizio e la fine della malattia del padre, che lo ha portato alla morte nel 1972.
(fig. 9-11) “Vivere ancora – noch mal leben”, una serie di ritratti realizzati da Walter Schels e Beate Lakotta di malati terminali ricoverati negli ospizi tedeschi. La fotografia come strumento per raccontare la rassegnazione, il dolore, la paura, la serenità, e infine l’abbandono alla morte.
Come descrive molto bene Susan Sontag in Sulla fotografia “Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo”.
(Fig. 12-14) Le inquadrature magiche delle foto del grande fotoreporter americano Wee Gee sono in grado di esasperare l’orrore permettendo, con straordinaria forza espressiva, di sentire quasi il suono della morte. Queste foto sottolineano in modo crudo l’indifferenza di fronte alla morte umana, ed allo stesso tempo però la legittimano nell’istante in cui è immortalata.
Nel mondo occidentale la morte è diventata sconveniente, fuori luogo, fonte di angoscia. La morte è spesso legata alla malattia e alla sofferenza. Tutta la cultura contemporanea quindi è caratterizzata da un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte riducendola a un affare privato, che interessa solo chi ne fa l’esperienza e, al massimo, i suoi familiari.
(fig. 15 -17) Il progetto fotografico “Days with my father” del fotografo Phillip Toledano, un diario per immagini che racconta la quotidianità di un padre che ha perso la memoria a breve termine. Immagini che vogliono restituire un presente più che un passato e che accompagnano il figlio fino alla morte del padre.
(Fig. 18-20) Terry Richardson, nome legato alla moda e alla cultura uderground, ha pubblicato nel suo tumblr una commovente sequenza di foto scattate negli ultimi momenti di vita della madre malata. Una documentazione cruda e allo stesso tempo poetica.
(Fig. 21-23) “Verrà la morte avrà i tuoi occhi” è una poesia di Cesare Pavese che da il titolo al progetto di Mario Giacomelli. Le bellissime immagini fatte all’interno degli ospizi, che lui stesso sente come le più vere e vicine a lui, per esorcizzare la sua paura più grande: quella di invecchiare. “In ospizio si sente l’odore della morte, è lì a fianco, non la si può evitare”, dice.
Qualcosa di simile è avvenuto anche per il lutto. È una forma di comportamento che la nostra socierà in qualche modo fatica a tollerare. Alla rappresentazione fotografica viene affidato il compito dell’elaborazione come strumento che veicola il ricordo.
(Fig. 24-26) Il bellissimo lavoro di Alicja Dobrucka, “I like you, I like you a lot”, cominciato subito dopo la prematura morte del fratelllino di 14 anni per annegamento nel 2008. La macchina fotografica come schermo per affrontare la brutalità dell’evento, che l’ha aiutata a reagire e a non essere solamente un’osservatrice passiva di una situazione senza speranza.
(Fig. 27-29) Miranda Hutton, nel suo lavoro “Room projects”, ricerca il legame che c’è tra la perdita di un caro e lo spazio. “Un processo universale secondo cui la gente, nelle prime fasi del lutto, resta aggrappata agli aspetti materiali del defunto per poi, lentamente, lasciarli andare”, spiega l’artista.
L’epoca in cui viviamo vede una trasformazione dell’immaginario che riguarda non solo la morte, ma anche la vita. Il dolore di sentirsi mortali, ed è là dove spesso la creatività trova gli strumenti per riuscire a esorcizzare il senso di impotenza, puntando a trasmettere messaggi, anche provocatori, che sono poi elaborati in modo soggettivo dal pubblico.
(Fig. 30) Il lavoro di Damien Hirst, ossessionato dal tema della morte, è stato spesso criticato perchè ritenuto forte e scioccante. All’età di sedici anni, quando lavorava in un obitorio, fece il suo famoso autoscatto con la testa mozzata di un morto. Interrogato sul suo rapporto con la morte rispose: “Siamo tutti preoccupati per la nostra esistenza. La gente pensa che il mio lavoro è incentrato sulla morte, ma è a malapena così, ciò che accade è che viviamo in una società che preferisce ignorare la morte. […] Non c’è vita senza morte. La morte rende la vita eccitante”.
(Fig.31-33) Pubblicato nel 2000 sulla rivista Scientific American, il lavoro della fotografa Angela Strassheim, che illutra dei cuori appena rimossi da cadaveri. Durante l’arco di sei anni ha lavorato come fotografa forense, facendo foto sulla scena del crimine e durante le autopsie.
(Fig. 34-36) Nel lavoro artistico di Joel Peter Witkin il gusto è tutto orientato scientemente verso il mostruoso e il dissacrante. Lui stesso afferma che la sua costante passione verso i cadaveri, di cui spesso si serve dopo essere stati sezionati, viene dall’aver assistito da piccolo a un incidente d’auto in cui una bambina è stata decapitata. I suoi esperimenti artistici accolgono tutta l’inquietudine post-moderna sul tema della morte.
Bibliografia
Stefano Ferrari, La psicologia del ritratto nell’arte e nella
letteratura, Laterza, 1998
Giorgio Di Mola, Rappresentazioni della morte in occidente – articolo di uscito su Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, n° 43, maggio agosto 2001
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