Erano non giovani, talvolta davvero molto anziane (facevano parte delle ‘Graie’, donne di non più florida età), i loro capelli non c’erano più, al loro posto serpenti che si agitavano, vestite prevalentemente di nero, quasi come i loro abiti, scuri anch’essi. Perseguitavano chiunque fosse, per loro, passibile di aver sbagliato, senza dargli tregua, fino a quando non avevano avuto ragione del malcapitato. Avevano un solo scopo: la vendetta. Si chiamavano ‘Erinni‘, o anche ‘Manìe‘ (ossia, le ‘Furie‘), e ‘colpivano’ in numero di tre o anche di più, a seconda dell’occorrenza. Venivano dalla madre Terra, Gea, ma alcuni le preferivano rappresentare come le figlie della Notte, dell’oscurità, del lato ‘selvaggio’ della vita. La loro ‘fisicità’ era particolare, talvolta erano rappresentate anche con ali, diffondevano un alito pestilenziale, il tono vocale gracido sembrava essere l’insieme di molti animali. Erano, certamente, a guardia dell’ordinamento gerarchico dell’epoca (la Grecia dell’Olimpo di Zeus), ma non solo in senso patriarcale, bensì, soprattutto, in quello rivendicante i diritti della madre, al di sopra di tutto. Molte tragedie si sono occupate del loro spirito vendicativo (quelle di Eschilo su tutti), ma la ‘questione’ che se ne può trarre, per tornare ai ‘bordi’ della nostra Contemporaneità, è: vendicar(e) si fa bene, da’ effettivamente sollievo rispetto ad un eventuale torto subito? O c’è qualcosa che fa da ‘resto’, inalienabile, inelaborabile, che spingerebbe a non trovare mai pace, pur dopo aver portato a termine il proprio ‘compito’?
Le azioni che possono aver ferito un soggetto possono essere molteplici, e di diverso aspetto, ma ci sono alcune caratteristiche che tenderebbero ad essere prioritarie, come, per esempio, pensare che una data azione tesa a voler ‘offendere’ una data persona, sia stata compiuta intenzionalmente, ossia, si tenderebbe ad attribuire ad un soggetto l’intera responsabilità di quel gesto, e quindi, che sia legittimo far sì che egli ne paghi le conseguenze in toto, senza nessuno ‘sconto’. Se poi quella data azione può aver arrecato del danno psico-fisico ad una persona, costituendo un motivo di sofferenza persistente rispetto al proprio ‘habitus’ originario, le cose potrebbero essere ancora più ‘lancinanti’. Dal punto di vista dell’effetto sulla psiche potrebbero originarsi varie problematiche quali stress, sensazioni di impotenza, vari livelli di ansia, che potrebbero ‘addizionarsi’ alla primaria sensazione di aver subito un’offesa, e ‘sedimentare’ un ‘humus’ per un eventuale desiderio di vendetta.
Ma, appunto, quali sarebbero i differenti stati emotivi che accompagnerebbero tale ‘desiderio’? Sicuramente sensazioni spiacevoli, confusive e contraddittorie: una persistenza di amarezza, indignazione, rancore per il gesto ricevuto ritenuto offensivo, coesistente al provare vergogna e senso di colpa (si pensi alle vittime di abusi di vario genere, che ‘après-coup’ pensano di essere non solo vittime, si percepiscono anche come ‘carnefici’).
Tale sofferenza di ordine psichico può far arrivare a pensare di volersi far giustizia anche con le proprie mani, ossia vendicarsi del torto ricevuto.
La vendetta con la susseguente volontà di perpetrarla cominciano a divenire dominanti nella sfera del pensiero dell’offeso.
Soggetti incapaci di dimensionare il ‘valore’ dell’azione offensiva o, magari, di respingere del tutto il desiderio di vendetta, potrebbero tuttavia attenuarlo ed agirlo in forme non cruente o indirette, diremmo quasi ‘sublimarlo’, nel senso che S. Freud da’ a questo termine. Per esempio ‘agire’ la loro vendetta in settori nei quali sono coinvolti nella quotidianità come lo studio, lo sport, il lavoro, mentre tutto ciò potrebbe alienarsi nella classica ‘identificazione con l’aggressore’ (altro concetto descritto dalla figlia di Freud, Anna, ed inserito nei meccanismi di ‘difesa’ psichica di vario grado) od anche con il pensiero ricorrente del “colpire per non essere colpito”. Oltretutto, molti desideri di vendetta potrebbero essere costitutivi di una ossessiva ricerca di perfezione e di ambizione nevrotica.
Se tale ‘sfogo’ si palesasse in tempi relativamente brevi (e non eccessivamente cruenti), forse, si potrebbe rinvenire una valenza positiva nella misura in cui tale azione servisse a recuperare una data stima di se stessi, un determinato controllo sulla propria vita, e un ri-guadagno di considerazione agli occhi dell’Altro (talora giudicante in senso negativo, anche se il torto subito è evidentemente ben ‘posizionato’, come capita spesso nel considerare l’accadimento di uno stupro, dove si sentono enunciare frasi del tipo “in fondo, comportandosi così e frequentando certe persone, se l’è cercata”).
I meccanismi della possibile vendetta sono uno degli argomenti maggiormente affrontati sia nella narrativa che nel cinema, dove il desiderio di vendicarsi diviene l’intera ‘struttura’ della trama, descrivendo con minuzia tutto il ‘percorrimento’ del soggetto offeso nel suo pensiero continuo di rivalsa verso un determinato ‘offensore’ (uno dei romanzi più pregnanti su questo tema, è senz’altro “Il conte di Montecristo” scritto da Alessandro Dumas, dove il protagonista, il marinaio Edmond Dantès, verrà imprigionato in maniera ingiusta per undici anni, tempo nel quale mediterà la sua sentita vendetta, preparando un piano vero e proprio di ‘azione’, da realizzare con precisione e freddezza, verso tutte quelle persone che lui riteneva essere alla base della sua detenzione. Però, Dumas, attraverso le riflessioni finali del personaggio da lui creato, lascia intendere che, nonostante il rancore accumulato in tutto quel periodo, probabilmente la vendetta non riesce ad essere così soddisfacente come la si era immaginata).
Dobbiamo cercare di comprendere, riferendoci all’essere umano che sembrerebbe incline all’agire vendicativo, che egli è un essere relazionale ed interagisce con l’ambiente circostante fin dalla nascita, oltre, naturalmente, ad avere pulsioni aggressive nel contempo (ricordiamo che ‘aggredire‘ proviene da ‘ad-gredior‘, ossia, andare verso l’altro). Molti autori, nell’osservare che un neonato (un ‘in-fans‘, ossia un ‘senza-parola‘) ha bisogno costantemente di assistenza, affermano, nel contempo, che egli è essenzialmente un ‘essere sociale’ (seguendo Aristotele che parla dell’uomo come ‘zoon politikon‘, un ‘animale sociale‘): molte delle sue reazioni hanno bisogno di essere completate, compensate, interpretate; il piccolo uomo non è capace di fare alcunché da solo (contrariamente alla maggior parte dei cuccioli dei primati non-umani), è ‘manipolato’ da altri (e nasce nella ‘culla del linguaggio dell’Altro‘), ed è nei movimenti che osserverà negli altri, il ‘luogo’ nel quale prenderanno forma i suoi primi atteggiamenti.
Per l’uomo, dunque, essere “sociale” è un’intima necessità, una ‘facilitazione’ quasi biologica, primordiale. I soggetti umani trascorrono gran parte della loro vita nell’impegnarsi ad espletare innumerevoli relazioni significative, nel loro ‘Umwelt‘, ‘mondo ambiente‘, interagendo con altri soggetti verso i quali si pro-tendono con varie e differenti modalità affettive.
Nel corso di tali interazioni sociali, presumibilmente, possono compiersi azioni che tenderebbero ad offendere, a ferire. Le occasioni di ferire e sentirsi feriti sono molte, da quelle meno significative a quelle più severe, ma il loro ‘imprinting’ varia in maniera considerevole da individuo a individuo, differenziandosi anche per la tipologia di relazione che intercorre tra gli ‘attori’ della questione.
Le relazioni intersoggettive soddisfano certamente i più profondi bisogni umani di affiliazione, di ‘transfert’ sociale, ma, inevitabilmente, si prestando ad essere anche una fonte di quelle che possono essere percepite tra le ferite più dolorose. Quando tali offese, tali atti ritenuti molto aggressivi, vengono ad originarsi, alcune emozioni negative come il rancore e il risentimento (che, come afferma l’antropologo Renè Girard, è, insieme al ‘capro espiatorio‘, uno dei motivi che maggiormente sono alla base delle interazioni umane, e ne costituiscono insieme il fondamento, spingendo spesso, per reazione, a rispondere a violenza con altrettanta violenza), possono assurgere a ‘modello’ reattivo. Quindi, il disagio proverrebbe da una data esigenza ‘fondativa’ di rispondere, attraverso la vendetta, all’offesa subita, per riparare al diritto che sarebbe stato vilipeso, con la conseguenza che non sarebbe più la semplice riparazione di un diritto violato che verrebbe ricercata, ma, soprattutto, un ‘surplus’ di male (una ‘jouissance‘, godimento extra) che, come ‘supplenza’, arrecherebbe danno all’offensore.
Un determinato atteggiamento vendicativo, per esempio, nella cultura occidentale, e, specificamente, in Italia, è ‘sostenuto’ e condiviso nelle sub-culture di diverse regioni italiane (come si può evincere nelle cosiddette ‘faide’ familiari, o nei ‘codici’ orali, assunti mediante un ‘giuramento d’onore’ nelle diverse organizzazioni dedite alla malvivenza, come la camorra, la mafia, etc., dove a torto subito si è obbligati a rispondere con adeguata ‘azione’ vendicativa, di solito molto sanguinolenta, che dovrebbe fungere da ‘riparazione’ per non aver rispettato tale ‘codice’ condiviso reciprocamente). Talvolta, tale ‘incipit’ di reazione, è rinvenibile anche nei conflitti che si generano in seguito ad una separazione e divorzio: viene a nascere un forte odio verso il coniuge ‘traditore’ (o ritenuto tale), che si può manifestare partendo dalla distruzione di beni una volta condivisi all’uso strumentale dei figli, finanche ad arrivare alla soppressione fisica dell’ex coniuge, ossia, all’omicidio.
Questo starebbe ad indicare, in maniera quasi ‘originaria’, che nella cultura mediterranea sia molto diffuso un sentito sentimento nel ritenere come assolutamente comprensibile l’esercitare una personale diritto/dovere di vendetta, da parte del soggetto colpito. E, altrettanto diffusamente, esiste anche una possibilità di ‘differire’ l’azione vendicativa, come opportunità utilitaristica per renderla ancora più efficace (il classico motto “la vendetta è un piatto da servire freddo”).
Il sentimento di vendicatività sarebbe ‘attraversato’ da uno stato di varie sensazioni, quale, ad esempio, un continuo malumore (disforia), del tutto impermeabile a qualsivoglia critica e conseguente ragionamento. Il soggetto ‘offeso’ vivrebbe così in funzione della vendetta, quasi a divenire per se stesso l’unico scopo di vita, e restare sempre ‘attivato’ alla ricerca di una possibile occasione per ‘pareggiare’ i conti con determinate punizioni o ritorsioni. La vendicatività la si potrebbe definire una ‘passione’ (nel senso originario di ‘patico’, di sofferenza) molto intensa, che si potrebbe protrarre per mesi o addirittura anni (come abbiamo potuto vedere nel romanzo di Dumas), portando con sé altri sentimenti quali la gelosia, l’invidia, la collera. E’ uno stato emozionale tendente alla passività rispetto alla volontà di opporsi, con l’oltrepassamento dei sentimenti sociali. Non esisterebbe un ‘tipo psicologico’ particolare rinvenibile come riferimento nosografico, in quanto potrebbe essere messa in atto da chiunque una ‘spinta’ ad un ipotetico collettivo sentimento di giustizia che non si scontri con le componenti educative etico-morali.
E’ certamente difficile stilare degli ‘steps’ riguardanti una tipologia di comportamento del soggetto che si vendica, ma alcune caratteristiche potrebbero essere enumerabili:
A) un soggetto potrebbe ‘agganciarsi’ a moventi di natura patologica senza essere per questo considerato un atto patologico;
B) l’atto di vendetta potrebbe palesarsi con momenti di forte violenza e distruttività senza che ciò possa far pensare ad una condizione di ‘breakdown psicopatologico‘ permanente;
C) un comportamento di vendetta potrebbe essere attribuito a determinanti culturali di una data società c.d. ‘civile’ sulla scorta di un deliberato “sentire comune” senza quindi essere indicato come la risultante di una motivazione di carattere psichiatrico.
In sostanza, l’atto vendicativo si presta ad essere un comportamento ‘polisemico’, multifattoriale, che non si presterebbe ad essere così facilmente ‘contrassegnato’ e categorizzato come patologico e/o incivile, seppur con una serie di fattori confusivi e alienanti, che non lascerebbero pensarlo come un gesto da condividere a pieno dal singolo e/o dalla collettività.
Ed il perdono, come possibile sentimento opponibile a quello della vendetta?
Una definizione che si potrebbe prendere in prestito, per tentare di concepire il perdono, potrebbe essere quella della filosofa inglese Joanna North (1987): “Per perdonare, dobbiamo superare il risentimento, non negandoci il diritto di provare quel risentimento, ma sforzandoci di vedere il colpevole con compassione, benevolenza ed amore, pur sapendo che egli ha volontariamente abbandonato il suo diritto su di essi”.
Il perdono potrebbe, conseguentemente, situarsi a vari livelli: se si verifica tra persone considerate in quanto tali, ossia tra la vittima ed il responsabile dell’evento offensivo, si può parlare di ‘perdono intersoggettivo‘; nel caso in cui chi si è reso ‘attore’ di un’offesa decida di perdonare se stesso, si parla di ‘perdono intrapsichico‘; se, altrimenti, il perdono venisse sancito tra gruppi sociali, ci si riferirebbe al ‘perdono intergruppi‘.
Altri autori definiscono il perdono come: “un insieme di mutamenti psicologici attraverso i quali l’individuo offeso diventa sempre meno motivato a vendicarsi, a rivalersi nei confronti di chi gli ha fatto del male e ad estraniarsi, fisicamente e psicologicamente, da tale persona. Al contrario, la vittima si sente sempre più motivata a riappacificarsi e ad essere benevola nei confronti dell’offensore, benché il suo comportamento l’abbia ferito. Il perdono è un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale, nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono ridotti, non negando il proprio diritto di sperimentarli, ma guardando al colpevole con compassione, benevolenza e amore”.
Alcune di queste considerazioni, portano a riflettere su ciò che il perdono dovrebbe poter rappresentare, ossia, che tale sentimento dovrebbe riferirsi, principalmente, a un’offesa psicologica, fisica e/o morale.
Per palesarsi correttamente, il perdono dovrebbe conseguentemente essere un atto intenzionale, mediante il quale chi si è sentito oltraggiato dovrebbe rinunciare volontariamente al ‘diritto’ di risentirsi con il soggetto che lo avrebbe offeso.
Perdonare è molto di più che negare (diniego) o dimenticare (rimuovere) il torto subito, affrancarsi dal pensiero di una possibile vendetta ed agire come se la questione non fosse mai accaduta, altrimenti si potrebbe ricreare le condizioni ‘favorevoli’ per una nuova attuazione del torto subito.
Perdonare dovrebbe essere, una scelta soggettiva, senza condizionamenti, come una possibile strada che un individuo può decidere di affrontare al riparo sia dalle possibili reazioni di pentimento che si potrebbero manifestare in colui che resterebbe l’artefice dell’offesa, sia da eventuali pressioni esercitate dall’esterno (famiglia, lavoro, gruppo sportivo).
Alcuni considerano, quindi, il perdono come un ‘regalo’ gratuito, nel senso indirizzabile come: “La gratuità è una qualità dell’agire nella quale e per la quale un soggetto dona qualcosa di sé o tutto se stesso all’altro, senza attendersi nulla in cambio. Il dono è veramente gratuito perché chi dona non si chiede se la persona che lo riceve se lo merita o meno. L’assenza di qualunque aspettativa che non sia il beneficium dell’altro è ciò che contraddistingue la gratuità” (Scabini&Rossi, 2000/1).
Il perdono potrebbe essere anche osservato come una possibile modalità di cambiamento, poiché andrebbe ad inserire un nuovo ‘insight‘ nell’affrontare gli eventuali eventi futuri e come coadiuvante nell’elaborare accadimenti dolorosi relativi al passato, permettendo, conseguentemente, di considerare in termini meno negativi colui/coloro che avrebbero arrecato dei danni nei propri confronti, considerandolo/i soggetto/i fallibile/i e limitato/i al pari di chi è stato da lui/loro offeso/i.
Il perdono si configura, quindi, come un mezzo che l’uomo ha a disposizione per salvaguardare un rapporto compromesso e per rispondere con fiducia e accettazione all’offesa e al dolore infertogli.
Il perdono dovrebbe essere un principio di mobilità e fluidità (contrariamente al rancore che si determina con caratteristiche di staticità e rigidità, spesso originanti una data sofferenza psichica), e, nel contempo, seguendo Erich Fromm et al., un reale movimento di ‘umanizzazione’, in quanto ‘costringerebbe’ a dover fare i conti con i limiti soggettivi (se il desiderio di verità resta ancora intatto) e con la propria vulnerabilità, con la propria capacità di sentirsi individui ‘lacerabili’. Il perdono richiede molto tempo, sia nel senso di ‘Kronos‘ che in quello di ‘Kairos‘, in quanto si configura come un processo lento, ed è proporzionale a quella data ‘ferita’ narcisistica che si ritiene di aver ricevuta.
Per concludere, il proprio ‘tempo logico‘ potrebbe essere messo a dura prova prima di giungere ad un sentimento di perdono esaustivo, e ciò presupporrebbe un lungo ‘lavoro’ sul proprio sentirsi determinato come soggetto, affinché l’eventuale ‘passaggio’ dal possibile desiderio di vendetta, alla dimensione del donare il perdono, non sia solo un frutto dell’Immaginario, che lasci accadere un ‘ritorno’ di un Reale rivendicativo, a scapito di un Simbolico assunto in prima persona.