Articolo di Daniela Zini
“Viaggiare è il più personale dei piaceri. […]
con questa frase Vita Sackville-West introduce i suoi ricordi di viaggio in Persia.
IRAN il paese delle rose
Hame-ye alam tanast va Iran del
Nist qaviyande zin qiyas khejel
[…]”
Nezami Ganjavi, Haft peykar
[…]”
VIII. Faida greco-persiana:
Europa e il mito dell’Occidente
“Eppure, in questa tragica vigilia non esiste altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera. Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è “ flatus vocis, il resto è catastrofe.”
Carlo Rosselli [1899-1937], 1935
Non bene conveniunt nec in una sede morantur
maiestas et amor; sceptri gravitate relicta
ille pater rectorque deum, cui dextra trisulcis
ignibus armata est, qui nutu concutit orbem,
induitur faciem tauri mixtusque iuvencis
mugit et in teneris formosus obambulat herbis.
Quippe color nivis est, quam nec vestigia duri
calcavere pedis nec solvit aquaticus auster.
Colla toris exstant, armis palearia pendent,
cornua vara quidem, sed quae contendere possis
facta manu, puraque magis perlucida gemma.
Nullae in fronte minae, nec formidabile lumen:
pacem vultus habet. Miratur Agenore nata,
quod tam formosus, quod proelia nulla minetur;
sed quamvis mitem metuit contingere primo,
mox adit et flores ad candida porrigit ora.
Gaudet amans et, dum veniat sperata voluptas,
oscula dat manibus; vix iam, vix cetera differt;
et nunc adludit viridique exsultat in herba,
nunc latus in fulvis niveum deponit harenis;
paulatimque metu dempto modo pectora praebet
virginea plaudenda manu, modo cornua sertis
inpedienda novis; ausa est quoque regia virgo
nescia, quem premeret, tergo considere tauri,
cum deus a terra siccoque a litore sensim
falsa pedum primis vestigia ponit in undis;
inde abit ulterius mediique per aequora ponti
fert praedam: pavet haec litusque ablata relictum
respicit et dextra cornum tenet, altera dorso
inposita est; tremulae sinuantur flamine vestes.
Publius Ovidius Naso [43 a.C.-18 d.C.], Metamorphoseon, II
à mon Amie Margherita Paolini
Les Amitiés d’esprit se font par chaînes et rencontres, comme les Amitiés de cœur. Un Ami admiré nous fait connaître ses Amis, et ceux-ci nous plaisent par des traits qui sont aussi les siens. C’est par un Ami admiré que j’ai connu Margherita.
Come il Dio della Bibbia, nel momento della creazione, il geografo è obbligato a dare un nome a ciò che descrive: la toponimia, costruzione umana, è, di conseguenza, carica di motivazioni umane.
“Ut omnis natura in caelum et terram divisa est, sic caeli regionibus terra in Asiam et Europam. Asia enim iacet ad meridiem et austrum, Europa ad septemtriones et aquilonem. Asia dicta ab nympha, a qua et Iapeto traditur Prometheus. Europa ab Europa Agenoris, quam ex Phoenice, Manlius scribit taurum exportasse, quorum egregiam imaginem ex aere Pythagoras Tarenti.
Europae loca multae incolunt nationes. Ea fere nominata aut translaticio nomine ab hominibus ut Sabini et Lucani, aut declinato ab hominibus, ut Apulia et Latium, aut utrumque, ut Etruria et Tusci. Qua regnum fuit Latini, universus ager dictus Latius, particulatim oppidis cognominatus, ut a Praeneste Praenestinus, ab Aricia Aricinus.”
M. Terentius Varro [116 a.C.-27 a.C.], De Lingua Latina, V
Il termine Europa è stato utilizzato dai geografi per designare l’insieme delle penisole, delle montagne e delle pianure, all’estremità occidentale del continente euro-asiatico. In tale modo, sono stati gli stessi geografi a sollevare uno dei grandi problemi relativi alla definizione di Europa.
Se a Nord, a Ovest e a Sud il mare costituisce il confine naturale del continente qual è il confine a Est?
Le steppe dell’attuale Russia, la terra degli sciti nell’Antichità, il Bosforo e gli altipiani, che separano l’Anatolia dalle valli dell’Eufrate e del Tigri, sono zone indefinite, in cui l’Europa emerge dall’Asia.
Perché e come l’Europa, confusa con l’Occidente, da semplice nozione geografica, è divenuta il principio organizzatore della più corrente visione del mondo?
Perché e come questo termine Europa può essere, al tempo stesso, vettore di sentimenti di alterità odiosa e portatore di speranze umaniste?
È, forse, la più straordinaria parabola della storia mondiale quella che ha visto il passaggio dalla guerra fredda e dalla contrapposizione nucleare dei blocchi alla distensione tra Est e Ovest, all’emancipazione dell’Europa Orientale e, poi, alla decomposizione dell’ordine mondiale per l’insorgenza di nazionalismi e di fanatismi tribali, che impongono, ormai, la scadenza, sia pure in prospettiva, di un “governo mondiale dell’Umanità.”
La Guerra del Golfo, nell’inverno del 1991, ha segnato il punto di spartiacque tra due epoche: gli anni della svolta mondiale e gli anni della frantumazione mondiale. Con una regola nuova e inquietante: quanto si sviluppava l’asse distensivo tra Est e Ovest, tanto si accentuava la contrapposizione aspra e impietosa tra Nord e Sud del mondo. Così, nel pianeta, si delineava una intesa tra le superpotenze, che consisteva nella riduzione delle armi nucleari e, tendenzialmente, un disarmo bilanciato, comprensivo anche delle armi convenzionali, che investiva gli arsenali di Washington e di Mosca, che toccava il destino del Patto di Varsavia e anche del Patto Atlantico. E, dall’altra parte, una accresciuta situazione di ingovernabilità dei conflitti regionali.
Il caso dell’Iraq dimostra che, nelle varie regioni del mondo, non interessate alla linea Est-Ovest, le superpotenze – una volta avviate a collaborare – contino meno di quanto contassero quando erano diverse. Quando erano divise e contrapposte, America e Unione Sovietica riuscivano a rappresentare ognuna una garanzia in un’area. Vi erano i Paesi dominati dal Comunismo e i Paesi dominati dagli Stati Uniti. In un certo modo, esisteva un bilanciamento. Il tramonto di quell’equilibrio del terrore ha scaricato sulle Nazioni Unite il compito fondamentale di garantire l’ordine mondiale, riproposto quella che era considerata l’utopia del “governo mondiale dell’Umanità”.
Che cos’è l’Europa? Un oggetto reale, una entità storica e geografica, chiaramente identificata, o un mito, una costruzione puramente immaginaria, atemporale, destinata a spiegare e a rafforzare il legame sociale?
“Nessuna scienza è affare di filosofi più della geografia.”
Strabone [58 a.C. ca.-21/25 a.C. ], Geografia, I, 1, 1
La costruzione comunitaria costituisce un fenomeno politico senza precedenti. Il progetto di una cooperazione o di una unione tra i Paesi europei non è certo una idea nuova, perché la nozione di Europa e di Stato europeo si ritrova in filosofi quali Immanuel Kant [1724-1804] e Georg Wilhelm Friedrich Hegel [1770-1831]. La integrazione comunitaria rappresenta, tuttavia, un caso singolare, sia per la natura dei legami, che uniscono i suoi membri, sia per la importanza che assume sulla scena internazionale. Sovente percepita come un apparato tecnocratico e distante, l’Unione Europea è oggetto di una relativa disaffezione da parte delle popolazioni degli Stati Membri, che denunciano una mancanza di apertura e di partecipazione cittadina al suo seno. In questa diatriba si inseriscono nuove sfide, quali l’allargamento a Est, la candidatura turca e l’adozione eventuale di un trattato, che stabilisca una costituzione per l’Europa. Confrontata a queste molteplici problematiche, l’Unione Europea è, più che mai, in cerca della sua legittimità, alla ricerca della sua identità.
L’idea dell’Europa inizia da un mito. Un mito greco, probabilmente tessuto su una trama semitica: la dea Europa – Oceanide dalle numerose sorelle, tra le quali figura Asia – sedotta e rapita dalle terre asiatiche da un biondo toro, di cui Zeus ha preso le sembianze, vola sul dorso dell’animale verso Creta, per esservi fecondata dal suo divino rapitore. La notte precedente il rapimento, un sogno premonitore le ha mostrato: “due terre disputarsi a causa sua, la terra di Asia e la terra di fronte ”[Denis de Rougemont, Vingt-huit siècles d’Europe]”.
Anche se, come riferisce Erodoto [484 a.C.-425 a.C.], Europa “non è mai giunta in quel Paese che i greci chiamano, ora [X secolo a.C.], Europa”, si immagina, senza difficoltà, tutto ciò che si possa trarre dal ricco simbolismo di questo rapimento leggendario. Ha di che soddisfare, pienamente, l’ideologia che l’Occidente nutre delle sue origini e della sua identità: venuta da quell’Asia delle prime grandi civiltà, Europa, scelta tra tutte, è, bruscamente e deliziosamente, strappata dalla sua terra natale per ricevere il seme di Zeus, che destina la sua discendenza a un ruolo dominante. Probabilmente costruito per fondare, al tempo stesso, la filiazione asiatica e la specificità della Grecia, il mito di Europa è ripreso da tutti i popoli che si situano sulla scia ellenica.
Nelle sue Storie, che riferiscono i conflitti tra i greci [elleni] e i persiani [barbari], Erodoto, utilizza, per primo, il termine Europa sia come toponimo, sia come nome proprio, e conferisce alla nozione una importanza ideologica e politica maggiore. L’Europa, con al centro la città di Atene, si oppone all’Asia, l’Impero dei persiani.
Gli elleni divengono, così, i guardiani del continente europeo, che il celebre storico greco erige a baluardo contro la tirannia persiana. La Guerra del Peloponneso [431-404 a.C.] che divide la Grecia, mette, temporaneamente, in secondo piano, la opposizione tra Asia e Europa. Non è che dalla Pace di Antalcida [386 a.C.], che attribuisce le città greche dell’Asia Minore, Cipro e Clazomene al Grande Re di Persia, Artaserse II, che la polarizzazione assume, di nuovo, rilievo. Nel suo Panegirico, l’oratore Isocrate esorta l’unione di tutti i greci contro i persiani, condannando l’attribuzione ingiusta delle città dell’Asia Minore e delle isole al Grande Re. La potenza crescente dell’Impero macedone lo porta, tuttavia, a rivedere il suo atteggiamento: nel suo scritto Filippo [346 a.C.], Isocrate preconizza l’intervento del Re di Macedonia, che dispone della più grande forza armata in Europa, contro l’Impero dell’Asia. Chiama, al contempo, i popoli europei – sottinteso i greci – a sostenere Filippo II di Macedonia [382 a.C.-336 a.C.].
“Restano da riassumere gli argomenti trattati, perché tu possa considerare nello spazio di pochissime righe la somma dei miei consigli. Affermo che tu devi essere il benefattore dei greci, il Re dei macedoni e dominare sul maggior numero possibile di barbari. Se farai ciò, tutti te ne saranno grati, i greci per i benefici di cui godranno, i macedoni, se li guiderai da Re e non da tiranno, gli altri popoli, se allontaneranno, grazie a te, il potere dispotico dei barbari e otterranno la protezione dei greci.”
Se, con Isocrate, la nozione Europa resta ancora strettamente legata alla Grecia, conosce, nell’opera di Teopompo di Chio una trasformazione: il Re di Macedonia è l’uomo più potente di Europa, capace – se vuole – di estendere la sua autorità su tutta l’Europa.
All’epoca dell’Impero romano, un nuovo aspetto, già enunciato dai greci, assume maggiore rilevanza: la superiorità dell’Europa grazie ai suoi vantaggi climatici e geografici. Era stato Ippocrate di Coo [460 a.C. ca.-337 a.C.] , il mitico fondatore della medicina, il primo a teorizzare la superiorità dei greci sui popoli asiatici per motivi climatici:
“Un clima variabile produce una natura che si accompagna a modi fieri, impetuosi e discordanti, dacché frequenti paure producono una disposizione mentale violenta, mentre la quiete e la calma intorpidiscono lo spirito. In realtà, è proprio per questo motivo che gli abitanti di Europa sono più coraggiosi di quelli di Asia. Le condizioni poco mutevoli inducono a modi indolenti; le variazioni brusche, di contro, eccitano il corpo e la mente.”
Il geografo Strabone [58 a.C. ca.-21/25 a.C.] la descrive come un continente vario e il più adatto a produrre il migliore cittadino e la migliore forma di Stato. Riferendosi ai cambiamenti climatici e geografici, mette in epigrafe il fatto che l’Europa abbia prodotto popoli dominatori – greci, macedoni, romani – e abbia saputo creare le migliori condizioni per una vita guerriera, agricola e politica.
“L’Europa ha ricevuto dalla natura grandi vantaggi: essendo tutta disseminata di montagne accanto a pianure, dappertutto i popoli agricoltori e civilizzati vivono fianco a fianco con quelli guerrieri, ed essendo i primi più numerosi, la pace ha finito per prevalere.”
L’idea di una Europa superiore agli altri continenti è ancora distinta da Marco Manilio [I sec. a.C.-I sec. d.C.], il poeta considera la Libia un deserto sterile, popolato, unicamente, da serpenti velenosi e animali selvatici; quanto all’Asia, le riconosce una certa fertilità e un relativo benessere, ma nulla di più. Di contro, conferisce all’Europa tutti i vantaggi: i suoi uomini ne fanno il più grande territorio, i suoi artisti e i suoi eruditi la terra più feconda.
Per molti di noi, Europa e Occidente sono pressoché la stessa cosa, per quanto Occidente, in quanto civiltà, abbia, da alcuni secoli, travalicato, ampiamente, le frontiere del vecchio continente. Noi difendiamo qui, la tesi che questa distinzione Europa-Occidente è più che una semplice questione di geografia o anche di storia. Corrisponde, infatti, a due concezioni del mondo che, dopo una coabitazione forzata e disagiata, sono chiamate a divergere, radicalmente, in un avvenire più o meno lontano. Etimologicamente, Europa [il cui nome proviene, forse, dall’accadico Erebu, che denota la terra del tramonto, in contrapposizione ad Asu, l’Asia, la terra del sorgere del sole] e Occidente [che prende il nome dall’espressione latina solem occidentem, ovvero sole morente, in contrapposizione a solem orientem, ovvero sole nascente] ricoprono lo stesso significato di natura geografica. Ma, quale che sia il punto di vista, Occidente è una apparizione ulteriore, secondaria, rispetto a Europa, che è prima, originaria. Se Erodoto, 2500 anni fa, si perdeva in congetture sulla origine del termine Europa, ignorava il termine Occidente, che, come il suo antonimo Oriente, non appare, come aggettivo, che, nel 395 d.C., con la divisione dell’Impero romano in due parti, alla morte di Teodosio I [347 d.C.-395 d.C.]. Riappare come sostantivo, intorno all’XI e al XII secolo, per la penna dei clerici [uomini di chiesa, che conoscevano bene il latino e il greco e avevano una buona cultura classica e una ottima cultura teologica], i quali, implicitamente almeno, identificano questo vocabolo con la Cristianità e, più specificamente, con il Cattolicesimo romano, in antitesi alla religione ortodossa dell’Impero bizantino, poi, del suo successore, l’Impero russo.
Da queste considerazioni storiche si può dedurre che l’Occidente è, innanzitutto, una divisione dell’Europa da se stessa, che relega la sua metà orientale ai barbari e agli eretici.
Lo Scisma di Oriente del 1054 tra la Chiesa Cattolica romana e la Chiesa Ortodossa mette fine a sette secoli di intense lotte teologiche, iniziate, nel 330 d.C., con la divisione dell’Impero romano, allorché il Vescovo di Roma pretendeva arrogarsi la supremazia sui Patriarcati di Alessandria e Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli. Il Sacco di Costantinopoli, nel 1204, da parte dei Crociati riafferma, con inaudita violenza, questa rottura tra Europa occidentale latina ed Europa orientale greca, poi slava.
Più tardi, una terza Europa appare con la Riforma Protestante, che ricopre, essenzialmente, l’area culturale germanica, intersecandosi tra le altre due, senza pervenire, tuttavia, nonostante la disastrosa Guerra dei Trenta Anni [1618-1648], a spezzare l’influenza dell’Occidente cattolico e romano, che regnava da Vienna alla Sicilia. Il seguito di questa tragica storia è conosciuto: è quello di una doppia guerra civile che ha opposto, tra il 1915 e il 1945, da un lato – e, forse, si spera, per l’ultima volta – i resti dell’Impero di Occidente di Carlomagno, diviso tra una parte continentale [asse Berlino-Vienna-Roma] e una parte atlantica [asse Parigi-Londra-Washington], e parallelamente, fino a oggi, le due metà separate dell’antica Europa romana: l’Oriente ortodosso e comunista all’Occidente cattolico e protestante, laicizzato. Questo ultimo scontro, nonostante la caduta dell’utopia comunista, prosegue, in modo larvato, e minaccia di riprendere proporzioni drammatiche, come testimoniano i conflitti nei Balcani, attizzati dall’ingerenza aggressiva degli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali.
Esiste un popolo europeo o occidentale?
“Iniziamo dall’Europa, per la varietà di forme, e la virtù degli uomini e delle forme politiche, e la grande disponibilità di beni, e, poi, è abitabile nella sua totalità.”
Strabone [58 a.C. ca.-21/25 a.C. ], Geografia, II, 5, 26
La domanda può sembrare assurda, dopotutto, perché i cittadini dell’Ovest europeo non hanno scelta: sono occidentali, per geografia e civiltà. Ma avremmo qualche difficoltà a chiamare orientali gli europei dell’Est: da un lato, dal 1989, l’Europa orientale non esiste più veramente come un blocco politicamente distinto, la maggior parte dei suoi Stati si sono riuniti all’Occidente; dall’altro, il termine designa, oggi, gli abitanti dell’Estremo Oriente, loro stessi più o meno occidentalizzati nei loro costumi e nella loro ideologia.
È Isidorus Pacensis o Isidoro di Badajoz o di Beja, che, per primo, nel 769 d.C., menziona gli europei, Europenses [soldati di contrade diverse che andavano dall’Aquitania alla Germania e formavano l’armata del Maire du Palais], descrivendoci la loro gioia di tornare vittoriosi dalla Battaglia di Poitiers, nel 732, contro gli invasori arabi. La battaglia era durata sette giorni, al termine dei quali, gli europei avevano visto, con l’aiuto del cielo, le tende del campo nemico:
“Statim nocte praelium dirimente, despicabiliter gladios elevant, atque in alio die videntes castra Arabum innumerabilia ad pugnam sese reservant et exsurgentes de vagina, sua diluculo prospiciunt Europenses Arabum tentoria ordinata, et tabernacula ubi fuerant castra locata, nescientes cuncta esse pervacua, et putantes ab intimo esse Saracenorum phalanges ad praelium praeparatas, mittentes exploratorum officia, cuncta reperunt Ismaelitarum agmina effugata, omnesque tacite pernoctando cuneos diffugisse repatriando.”
Ma le tende degli arabi erano vuote, ai guerrieri di Carlo Martello [690 ca.-741], dopo il saccheggio, non restava più che tornarsene, festanti, ciascuno al proprio Paese:
“Europenses vero, soliciti ne per semitas delitescentes aliquas facerent simulanter celatas, undique stupefacti in circuitu sese frustra recaptant, et qui ad persequentes gentes memoratas nullo modo vigilant, spoliis tantum et manubiis decenter divisis in suas se laeti recipiunt patrias.”
Con l’occidentalizzazione del mondo, oggi, quasi totale, incontestabile, l’Occidente non ha più un luogo geografico preciso.
Secondo Oswald Manuel Arnold Gottfried Spengler [1880-1936], il termine designa una civiltà animata da uno spirito di conquista faustiana o prometea, che è, nonostante le apparenze, entrata in una lunga fase di declino dal Rinascimento.
Più recentemente, Samuel Phillips Huntington [1927-2008], ha riproposto la nozione di civiltà come un insieme di valori condivisi. Huntington non è, forse, il primo ad aver intravisto uno scontro delle civiltà nel mondo, tuttavia, il suo libro, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order [1996], che sviluppa una tesi che aveva, già, espresso, nel 1993, in un articolo apparso sulla rivista Foreign Affairs, è divenuto un riferimento obbligato dopo l’11 settembre 2001. Molti intellettuali e politici si sono ben guardati dal vedere negli attentati al World Trade Center e nella replica americana, in Afghanistan, l’inizio di uno scontro larvato tra Occidente e Islam, per timore di accreditare le tesi di Huntington. In sostanza, Huntigton pretende che, dalla fine della guerra fredda, sono le identità e la cultura a generare i conflitti e le alleanze tra gli Stati, e non le ideologie politiche o la opposizione Nord-Sud. Il mondo ha, così, tendenza a dividersi in civiltà che inglobano più Stati. Non vi è, dunque, coincidenza tra Stato e civiltà. Per Huntigton, la civiltà rappresenta la entità culturale più larga.
La civiltà “è il modo più elevato di raggruppamento e il livello più alto di identità culturale di cui gli esseri umani hanno bisogno per distinguersi dalle altre specie. Si definisce, al contempo, attraverso elementi oggettivi, quali la lingua, la storia, la religione, i costumi, le istituzioni e attraverso elementi soggettivi di auto-identificazione.” Secondo Huntington, sette o otto civiltà si dividono il mondo, sebbene non ne citi che cinque, la cinese, la giapponese, l’induista, la musulmana e l’occidentale. Non considera l’Africa come una civiltà in sé – diversamente da Fernand Braudel [1902-1985] –, preferendo riunire il continente alle altre civiltà.
Riguardo all’America Latina, adotta una posizione ambivalente: talora, la considera una sotto-civiltà dell’Occidente, talora vi vede una civiltà distinta, incombente per gli Stati Uniti. Il mondo internazionale del dopo-guerra fredda è divenuto multi-civilizzazionale, secondo Huntigton, perché l’Occidente ha cessato di dominare il sistema internazionale con la fine dell’Imperialismo coloniale e la cessazione delle ostilità tra Stati occidentali. Gli Stati delle altre civiltà si sono, a loro volta, inseriti in questo sistema per interagire gli uni con gli altri. Così, grandi che siano state la potenza dell’Occidente e la attrattiva della sua cultura per le altre civiltà, la diffusione delle idee occidentali non ha prodotto una civiltà universale. Le civiltà esposte alle idee dell’Occidente ne hanno fatto propri i savoir-faire, senza tuttavia sposarne tutti i valori, come l’individualismo, lo Stato di diritto e la separazione tra spirituale e temporale. La modernizzazione degli Stati non-occidentali non ha portato, pertanto, la loro occidentalizzazione, ma rafforzato, piuttosto, l’attaccamento alla propria civiltà. Parimenti per la democratizzazione di diversi Paesi non-occidentali; la democrazia ha portato al potere partiti ostili ai valori occidentali. Secondo Huntington, si sta stabilendo un nuovo rapporto di forze tra le civiltà. Mentre l’Occidente vede la sua influenza e la sua importanza relative declinare, le civiltà asiatiche guadagnano in potenza economica, militare e politica e riaffermano i propri valori.
Conoscendo una crescita demografica rapida, l’Islam è in preda a rivalità intestine e destabilizza i suoi vicini. La spinta demografica dell’Islam si accompagna a una risorgiva della religione islamica che, in diversi Paesi, si è palesata con l’ascesa del fondamentalismo, in particolare tra i giovani. Huntington, infine, stima che la sopravvivenza dell’Occidente dipenda dalla capacità e dalla volontà degli americani di riaffermare la loro identità occidentale, fondata sull’eredità europea. Il libro di Huntignton è, al contempo, una teoria delle relazioni internazionali e una critica del multi-culturalismo come politica interna. Imputa al multi-culturalismo americano di voler creare “un Paese dalle civiltà multiple, vale a dire un Paese che non appartiene ad alcuna civiltà e sprovvisto di una unità culturale”. Ritiene che lo scontro tra i sostenitori del multi-culturalismo e i difensori della civiltà occidentale costituisca il “vero conflitto” negli Stati Uniti. Se questi ultimi dovessero disoccidentalizzarsi, l’Ovest si ridurrebbe allora all’Europa, anch’essa alle prese con l’irruzione dell’Islam. Per arrestare il declino dell’Occidente, Europa e America del Nord dovrebbero ricercare una integrazione politica ed economica, come pure allineare i Paesi dell’America Latina all’Occidente, impedire al Giappone di staccarsi dall’Ovest, frenare la potenza militare dell’Islam e della Cina, mantenendo la superiorità tecnologica e militare dell’Occidente sulle altre civiltà. Questo schema esemplificativo si accorda molto bene con la paranoia americana di fronte al risveglio della Cina e dell’Islam e non fa spazio ad alcuna potenza europea distinta. La tesi di Huntignton, che si ricollega alle riflessioni strategiche di Zbigniew Brzezinski [1928], è dettata da un opportunismo geopolitico, più che dall’osservazione dei fatti. Il suo leitmotiv può riassumersi in questo appello:
“Occidentali di tutti i Paesi unitevi dietro la bandiera stellata di fronte alle minacce barbare!”
L’America anglo-sassone, riconosciamolo, gode di una posizione egemonica incontestabile nel mondo dalla caduta dell’Unione Sovietica. È, inoltre, – e ciò, dall’origine della sua conquista dell’Ovest – la punta di diamante del dispositivo tecnico ed economico di occidentalizzazione del mondo e di mondializzazione dei mercati. Il punto debole dell’America, il difetto della sua corazza risiede, fin dall’inizio, nell’eterogeneità della sua costituzione etnica e culturale, nel poco di profondità della sua storia e delle sue tradizioni. La maggioranza WASP [acronimo di White Anglo-Saxon Protestant, che, in inglese, significa anche vespa, per indicare un cittadino statunitense, discendente dei colonizzatori originari inglesi, non appartenente, quindi, a nessuna delle tradizionali minoranze: nativi americani, afro-americani, ebrei, irlandesi, italiani, ispanici, europei orientali slavi, asiatici] si sente defraudata delle sue prerogative dalle potenti lobbies etniche, affariste e mafiose che si dividono, oggi, il potere negli Stati Uniti.
Nel mondo, si mormora che l’America, caos di popoli e di culture, senza tradizione unificatrice, miri ad abolire ciò che non ha mai posseduto: tutte le tradizioni plurimillenarie che sono sopravvissute al rullo compressore della modernità conquistatrice. Senza andare fino alla tesi, non dimostrabile, del complotto in questo senso, si può constatare che è, effettivamente, ciò che accade sul terreno: laddove appaiono i prodotti della civiltà occidentale americana, inclusa l’Europa, questi stessi si insediano, scalzando la cultura locale. Ma l’ideologia occidentalista [Aleksandr Aleksandrovich Zinovyev] si impone ancora più efficacemente con la diffusione delle regole di produttività e di mercato, “delocalizzanti” e sradicanti, legate agli investimenti e ai prestiti concessi dagli organismi internazionali.
Sarebbe illusorio pensare che le barriere doganali possano bloccare il meccanismo. Il fallimento dei tentativi autarchici, nazionalisti o comunisti, è una grande lezione del XX secolo. La soluzione è piuttosto da ricercare in un ritorno di coscienza etnica o culturale, riscontrabile un poco ovunque, in questo momento, che permetta di limitare gli eccessi del processo di mondializzazione e di riorientarne le opzioni nel senso scelto dai popoli destinatari. L’Europa ha un ruolo-chiave da svolgere in materia, perché è, innegabilmente, la matrice della civiltà occidentale, monoteista e prometea, la cui fiaccola è stata ripresa dall’America. Ma la sua cultura-madre di origine indo-europea, greco-romana, germanica o slava, resta vivente nelle profondità del suo inconscio collettivo, nella memoria e nella tradizione occultate, sempre pronte a riemergere in tempo di crisi, con tutte le loro risorse. L’America, pollone tardivo della civiltà, è il vettore essenziale dell’Occidente, il conquistatore dell’Ovest per eccellenza.
L’Europa è, per forza di cose, l’Occidente. Ma non è solo l’Occidente. Figlia della Grecia, l’Europa nasce alla fonte della tragedia e della politica. Il ricorso a questa eredità oscurata potrà, forse, salvarla dalle impasses occidentaliste e tracciare una nuova via verso un avvenire che, al di là del nihilismo attuale, non può riannodare con la storia e il destino, il tragico e il politico. In breve, l’Europa non è, certo, più completamente se stessa, sotto l’influenza del modernismo occidentale; ma non è neppure ancora perfettamente occidentalizzata come l’America. La sua identità composita euro-occidentale cerca una via propria nei labirinti intricati della tecno-struttura mondialista e a fronte delle ambizioni geopolitiche dell’America totalitaria.
Questa ricerca di indipendenza può, inoltre, renderla solidale con le etno-resistenze che, qui e là, tentano di spezzare le catene dell’influenza occidentalista. Il risveglio di una coscienza culturale europea, sola alternativa che possa trarci dall’implosione attuale, è portatore di un nuovo rapporto con la tecno-struttura anonima che manipola il destino dei popoli senza il loro consenso. Implica anche una geopolitica di riconoscimento e di coesistenza dei popoli e delle loro tradizioni in seno al sistema-mondo, in luogo della loro negazione, quale è praticata dall’Occidente. Per il momento, il Vecchio Continente non sembra disposto ad accettare questa sfida, ma l’aumento delle minacce legate all’apertura storica presente, la nuova multi-polarizzazione del mondo e la necessità di opporre un contro-potere alla dittatura americana potrebbero costringerla, prima di quanto creda, a darsi la politica dei suoi mezzi.
Al tempo della guerra fredda, l’Europa era divenuta la prima linea difensiva dell’America. Era anche una prova tangibile del successo della politica americana del dopo-guerra. La sagace generosità del Piano Marshall aveva pagato, l’Europa dell’Ovest non era divenuta comunista e non aveva raggiunto il blocco sovietico. L’America, come Monsieur Perrichon, l’eroe di Le Voyage de Monsieur Perrichon [1860] di Eugène Labiche [1815-1888], ci amava, tanto più che ci aveva salvati. Le difficoltà dell’Europa richiamano l’America alle sue. Di riflesso ai suoi successi, l’Europa è divenuta uno specchio dei suoi limiti. Non è abbastanza dire che la crisi europea intervenga in un difficile momento per gli Stati Uniti, che rende ancora più aleatoria la speranza di una ripresa economica, prima della scadenza elettorale delle Presidenziali americane.
Barack Hussein Obama [1961] ha ignorato l’Europa, l’Europa si porta alla sua attenzione. La crisi europea ha, certo, cadute dirette sulla economia americana, ma forza, soprattutto, gli Stati Uniti a far fronte a ciò che loro rifiutano, ancora, di fare: l’ingresso in un mondo che non dominano più come facevano ieri. A tale proposito, l’appello di aiuto dell’Europa alla Cina, quale che sia la risposta poco entusiasta di quest’ultima, è particolarmente difficile da accettare per Washington. Simboleggia le trasformazioni profonde del mondo. Nel 1950, l’Occidente dietro gli Stati Uniti rappresentava il 68% della ricchezza mondiale. È meno del 43%, oggi, e non dovrebbe essere che il 32%, nel 2050, secondo le proiezioni di istituzioni finanziarie, quali la Goldman Sachs [1869]. La Cina è, già, la seconda potenza economica mondiale e il Brasile sta per divenire la sesta economia del pianeta, superando, così, la Gran Bretagna.
Anche se volesse venire in aiuto dell’Europa, l’America ne sarebbe ben incapace!
Sarebbe crudele evocare, qui, la storiella del cieco e del paralitico per descrivere lo stato di decadenza competitiva, che caratterizza, ormai, le relazioni tra America ed Europa. Certo, l’America spera, sempre, di poter fare assegnamento sull’Europa.
Su tale punto, la riuscita della NATO in Libia appare un precedente felice, ma può servire da modello?
Un dittatore è caduto per un costo – agli americani piace sottolinearlo – insignificante per Washington, lo 0,1% del costo del loro impegno in Afghanistan.
L’America può non essere in prima linea?
Certo, non è stata l’Unione Europea, ma, essenzialmente la Francia e la Gran Bretagna ad avere svolto un ruolo di primo piano in questa avventura singolare. Ma l’America, grazie alle potenze europee, non si è sentita sola nel suo “interventismo umanitario”, ha trovato dei relais.
Dove li troverebbe domani se l’Europa, in piena tempesta finanziaria, politica e identitaria, si trovasse costretta a ripiegare su se stessa per curarsi le ferite?
Il sogno dell’America era di non doversi più preoccupare dell’Europa, considerata una questione regolata e superata.
Si è resa conto che non è così.
Daniela Zini
Copyright © 12 giugno 2012 ADZ