Felice Giordano, Capri, Marina Grande
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Nel 1925, il pittore tedesco Max Hermann Pechstein così scriveva mentre soggiornava a Positano: Sono da sabato 25 luglio a Positano, un vecchio covo di pirati saraceni. … Le case sono così comode che, non essendo osservati, è possibile vivere e mangiare in giardino per tutto il giorno in costume adamitico”.

Alle sue parole, un anno dopo, faceva eco lo scrittore Riccardo Bacchelli: “… le case di Positano. Serbano queste una fattezza antica e severa. Addossate alla spalliera del monte, davanti sorgono da un ripiano di muratura, che sostiene poca terra, qualche vite a pergolato, e il loggiato della casa a due piani. Dall’alto, arrivando, si vedono i tetti a cupola schiacciata, appresi dalle fogge moresche. Son fatti d’uno scuro battuto di calcestruzzo, e il lume di luna, splendido sul mare, pare vi muoia sopra senza riflessi. … i positanesi dalla natura hanno appreso l’arte di porre e di distribuire le case e le contrade in modo che del monte seguino e sollevino senza turbarle le linee maestre. Qui s’è svolta appunto un’architettura che obbedisce alla natura, e obbedendole la ricrea e la fa sua ed umana. Ve ne sono in Positano bellissimi esempi. … Architettura di muratori anonimi e scolari dei secoli, di cercatori pazienti in un terreno caduco; tanto più maestrevole quanto meno sa di sé” (fig. 1).

Negli anni ‘20/’30 del ‘900, la Costiera Amalfitana e Capri, come già nel ‘700, furono oggetto di un rinnovato Grand Tour che ebbe come protagonisti soprattutto artisti e intellettuali che, per motivi politici, qui si rifugiarono. Soprattutto russi e tedeschi, in fuga dai regimi sorti nei loro paesi tra le due Guerre e attratti da quella “Sehnsucht nach dem Süden“ che aveva già contraddistinto Goethe nel suo Viaggio in Italia, trovarono nello splendore e nella ricchezza del paesaggio mediterraneo quella pace a cui il loro spirito anelava sin dalla fine della Prima guerra mondiale che aveva avvalorato in pittori espressionisti come Pechstein quel desiderio di fuga dalla città, avvertita come vera e propria espressione diabolica, per immergersi nell‘incanto della natura vista come utopico e primordiale giardino dell’Eden, lontano dalla modernità e dal fragore delle battaglie. Solo a Adriaan Lubbers, ingegnere e pittore olandese, riuscì in questi lidi l’incredibile impresa di cancellare la temibile tentacolarità della città moderna, simboleggiata da New York (dove aveva vissuto e lavorato ritraendo grattecieli) e denunciata da Fritz Lang nel suo film Metropolis, con il trasferire al freddo e spesso plumbeo paesaggio urbano statunitense gli accesi, caldi colori da lui ammirati a Positano durante il suo soggiorno trasformando così la città in un invitante ed idilliaco approdo mediterraneo (fig. 2).

Del resto, a Positano, che unisce due coste -quella di Amalfi e quella di Sorrento- l’impresa di fondere l’antico al contemporaneo e il costruito alla natura riuscì perfettamente negli anni tra le due guerre quando, ritraendo le bianche, essenziali forme quadrangolari delle case della cittadina di mare campana, gli artisti riuscivano a compiere un’opera cubista (stile molto in voga negli anni ‘20) semplicemente facendosi guidare dalla natura che li circondava. E questo intreccio tra vecchio e nuovo, tra costruito e natura, tra cielo e mare favorì non solo la creazione di un’arte totale invocata già dal Gesamtkunstwerk di Wagner, ma anche la definizione di un uomo nuovo che prendeva forma dalla palingenesi di utopiche, alternative e quasi selvagge manifestazioni artisiche sperimentate in quel fecondo crogiolo di idee e nazionalità che trasformò, tra il 1920 e il 1940, la Costiera Amalfitana e Capri in un luogo magico dove, come ne La corsa (fig. 3) di Picasso, eseguita anch’essa in quesgli anni in riva al Mediterraneo antico seppur non a Positano (dove, però, il pittore soggiornò), era possibile liberarsi completamente, sia interiormente che esteriormente, per correre felici verso il futuro. Il paesaggio meridionale italiano, infatti, aveva attratto tanti stranieri non solo per la sua notoria bellezza, ma anche perché in esso questi avevano idealizzato una specie di Paradiso terrestre a cui si aggiungeva la semplicità di vita dei suoi abitanti e la loro libertà di costumi da loro tanto ammirata.

Agli occhi degli stranieri, questa era una straordinaria, antica terra da sempre crocevia di popoli ed etnie diverse, dove anche il cristianesimo e l’islamismo riuscivano a trovare una fusione nelle chiese dalle colorate cupole smaltate in maiolica e nelle antiche torri saracene disseminate lungo le coste. I primi intellettuali stranieri ad arrivare a Positano furono i russi tra cui lo scrittore Michail Nikolaevic Semënov. Questi, con i guadagni ottenuti con il lavoro svolto presso i Ballets Russes giunti in Italia nel 1916 (faceva da contatto tra la prestigiosa compagnia di Djagilev con i pittori e gli intellettuali italiani quali Depero, Cardarelli, Barilli, Baldini), costituì in un vero e proprio convivio nel Mulino di Arienzo, una vecchia costruzione che domina Positano dal verde dei Monti Lattari, da lui acquistata e dove ospitò Djagilev, Picasso, Jean Cocteau, Lifar’, Bakst, Nižinskij, Stravinskij, Marinetti. Qui i pittori Ivan Pankrat?vic Zagorujko (fig. 4) e David Burljuk (fig. 5) ritrassero l’aggregato urbano, i panorami, le terrazze, le scalinate, i vicoli e le scene tipiche della vita locale e di quel dolce “far niente” a cui questa invitava. La colonia tedesca fu più tarda a giungere, ma numerosi, oltre al già citato Pechstein, furono i nomi illustri. A Positano, sempre in quegli anni, arrivò anche lo scrittore svizzero Gilbert Clavel, amante delle bizzarrie estetiche futuriste tanto da trasformare la cinquecentesca torre d’avvistamento spagnola della spiaggia di Fornillo (nota attualmente come “Torre di Clavel”) in un’abitazione surreale (fig. 6) dove ospitò Picasso, Stravinsky, Depero, il grande ballerino e coreografo russo Léonide Massine, il compositore Alfredo Casella e lo scrittore Italo Tavolato.

Tutti amanti di quelle coste, si ritrovarono il 9 e 10 luglio 1922 a partecipare al primo “Convegno sul paesaggio”, organizzato dal comune di Capri di cui era sindaco l’ingegnere e scrittore Edwin Cerio. Nel Manifesto della bellezza di Capri che lo accompagnava, Italo Tavolato, oltre a scrivere che la bellezza è sacra poiché illumina l’essenza delle cose, affermava che essa, non solo fulcro della nostra tradizione antica ma anche suscitatrice di humanitas, doveva essere strenuamente difesa, contro gli insulti di una modernità materialistica, meccanica ed industriale che, se giunta a Capri, dove il dionisiaco si accordava perfettamente con l’apollineo creando quell’equilibrio che solo i Greci erano stati capaci di realizzare con la loro arte, ne avrebbe completamente stravolto l’essenza di luogo ideale, unico al mondo. A questo, lo scrittore Luigi Parpagliolo aggiungeva come, grazie alla poesia e all’arte, si fosse venuto man mano delineando un nuovo sentimento della natura, quasi un nuovo stato di coscienza che Gilbert Clavel vedeva esaltato dall’architettura da lui definita “la sintesi di tutti gli elementi creativi, in quanto comprensiva di ogni produzione d’arte del passato e del presente”. Persino Marinetti, presente al convegno, malgrado le sue idee futuriste, contrarie a qualunque passatismo, convenne che per non contrastare la naturalezza delle coste dell’isola, l’architettura più consona da usare fosse quella locale, antica e mediterranea (fig. 7).

Lo aveva ben compreso il medico svedese Axel Munthe che nel 1929 pubblicò “La storia di San Michele”, la sua villa -sorta di città ideale dell’arte che ancora oggi ospita pittori svedesi- da lui stesso progettata e costruita in uno dei punti più panoramici di Anacapri (fig. 8), a 327 metri di altezza sul livello del mare dove un tempo sorgeva una villa imperiale romana e una cappella medioevale. “Aperta al sole e al vento e alle voci del mare” la villa guarda verso quel mare Mediterraneo, culla delle civiltà più antiche, del cui splendido paesaggio non è solo simbolo, ma strenua difenditrice.

Fig.2 Adriaan Lubbers, New York South Ferry
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