Vendetta fig. 1 Toro Farnese
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Nel 1545, durante gli scavi nelle Terme di Caracalla, ordinati da Papa Paolo III Farnese al fine di reperire statue antiche che andassero ad abbellire la stupenda dimora della nobile famiglia romana nota come Palazzo Farnese, attuale sede dell’Ambasciata di Francia a Roma, fu rinvenuto il più grande gruppo scultoreo dell’antichità, ricavato da un unico blocco di marmo: il così detto Toro farnese.

L’imponente scultura a forma piramidale occupa attualmente una sala del Museo Nazionale Archeologico di Napoli dove lo spettatore, ammirato, può avere una visione a tutto tondo di un’opera d’arte che si fa splendida interprete di quello stile ellenistico, nato in Grecia e importato in un secondo momento a Roma dove ne influenzò in maniera determinante l’arte. Probabile copia del II secolo a. C. di un originale greco, l’articolato e complesso soggetto rappresentato nel marmo ha al suo centro una figura femminile: quella di Dirce (fig 1), protagonista della mitologia greca, il cui supplizio, derivato da una vendetta, ci viene con incredibile forza, così evocato. La mitologia narra che Dirce e il marito Lico ospitarono presso di loro la nipote di quest’ultimo, Antiope, scacciata dal padre Nitteo perché, sedotta da Zeus, aveva dato alla luce due gemelli: Anfione e Zeto. Trattata come una schiava da Dirce e separata dai suoi figli da Lico che abbandonò i due bimbi sul monte Citerona, Antiope fu proprio da questi, miracolosamente sopravvissuti, vendicata. Lico venne ucciso mentre Dirce, legata ad un toro, si sfracellò sulle rocce contro le quali venne con furia trascinata.
Prova potente di come la vendetta vista come forma primordiale di giustizia che cerca di ristabilire un equilibrio perduto fosse un tema radicato sia nella mitologia che nella psicologia del profondo delle antiche civiltà mediterranee, il supplizio di Dirce si ritrova rappresentato sia sui vasi italioti che sulle urne etrusche che nelle pitture pompeiane (fig. 2) senza dimenticare i mosaici, le monete e le gemme antiche. Una delle prime raffigurazioni è probabilmente quella visibile su un vaso ora a Berlino, proveniente da Policoro e dipinto da un artista protocampano conosciuto come il Pittore di Dirce (fig. 3).

Leggendo il testo di Oiver Taplin, About pots and plays, che tratta delle influenze fra la drammaturgia greca e la rappresentazione vascolare della Magna Grecia, rileviamo che la vendetta era uno dei maggiori soggetti trattati nella tragedia classica e, di conseguenza, nella pittura . Ecco, quindi, vasi provenienti dal Sud d’Italia o dalla Sicilia rifarsi al mito di Clitennestra uccisa dal figlio Oreste desideroso di vendicare il padre Agamennone (fig. 4) o di Medea che, dopo aver ucciso la sua rivale, Glauce, sempre per vendetta contro Giasone che l’aveva abbandonata, arriva ad uccidere i propri figli da lui avuti pur di lasciarlo senza discendenza (fig. 5).

“Dolce è la vendetta, specialmente per le donne” scriveva Lord Byron ai primi dell’800; a lui, verso la fine dello stesso secolo, faceva eco Nietzsche che affermava in un suo aforisma: “Nella vendetta e nell’amore la donna è più barbara dell’uomo”. Date cotali affermazioni, non si pensi assolutamente che la vendetta sia una prerogativa unicamente femminile. Essa, al contrario, è un sentimento universale che, però, in una realtà altamente passionale quale quella mediterranea, spesso può vedere la donna sia protagonista attiva che passiva.
Questo è il caso esplorato, sempre nell’800, da Francesco Hayez, allorquando, allontanatosi dal soggetto storico a lui congeniale, eseguì tre dipinti legati alla vendetta amorosa che sapevano tanto di quel melodramma così in voga all’epoca a cui l’artista aveva dedicato alcune sue creazioni. L’iconografia di Accusa segreta (fig. 6), Consiglio alla vendetta (fig. 7) e Vendetta di una rivale (fig. 8), trittico noto anche come Le Veneziane, è, infatti, la stessa seguita dallo scrittore Andrea Maffei, amico di Hayez, che negli stessi anni componeva le due romanze Le veneziane e La vendetta.

Nessuno, comunque, è riuscito ad esprimere in arte la vendetta con maggiore potenza di Artemisia Gentileschi. In opere dedicate ad eroine bibliche quali Giuditta che decapita Oloferne, nella versione di Napoli (fig. 9) e di Firenze (fig. 10), e Giaele e Sisara (fig. 11) la pittrice seicentesca riesce a trasfondere nella tela la forza del desiderio di vendetta di un popolo oppresso, quello d’Israele, che, per mano di donne consapevoli, determinate e coraggiose, si ribella anelando la libertà. In questi dipinti, che hanno suscitato l’ammirazione di Roberto Longhi e di Roland Barthes che ne ha riscontrato e sottolineato l’importanza della presenza femminile, alcuni critici hanno voluto leggere il desiderio di rivalsa di Artemisia contro la violenza subita da Agostino Tassi. Qualunque sia stata la ragione che portò l’artista ad esprimersi con tanta efficacia, una cosa è certa: la vendetta nelle sue mani si trasforma in un canto di liberazione, in un invito universale a sollevarsi dal giogo, qualunque esso sia, a reagire senza paura alcuna a qualunque oppressione e oppressore e a mirare diritti verso la libertà.

Vendetta fig. 10 Artemisia Gentileschi Giuditta che decapita Oloferne, Firenze
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