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“Ubi tu Gaius, ego Gaia”: questa era la formula matrimoniale romana la cui traduzione suona: “Ovunque sarai tu, Gaio, lì sarò io, Gaia”, indicando con essa la totale dipendenza della donna dall’uomo. Per i nostri antenati, infatti, la donna era da considerarsi una creatura totalmente irresponsabile, che necessitava di tutela continua da parte dell’uomo.

A causa di ciò, nella Roma antica si conobbero due tipi di riti matrimoniali legalmente riconosciuti: quello cum manu, come possiamo rilevare dal bassorilievo marmoreo posto sul fronte di un sarcofago del II secolo d.C. conservato nel Palazzo Ducale di Manova (fig. 1), dove la donna, non più soggetta alla tutela del pater familias, passava sotto quella del marito che assumeva poteri di vita e di morte su di lei al punto di poterla uccidere in caso di adulterio e sine manu, come indicato dalla scultura riportata sul sarcofago Torlonia (fig. 2), conservato nell’omonimo museo romano, dove, malgrado le nozze, la donna continuava a restare sottoposta ai familiari di sesso maschile della sua famiglia d’origine e non poteva accampare nessuna pretesa ereditaria nei confronti di quella del marito.

Con l’avvento del Cristianesimo, gran parte della cerimonia nuziale pagana fu mantenuta nel rito cristiano; anche in questo, infatti, i veri officianti erano gli sposi e il sacerdote, erede dell’aruspex romano, aveva ancora il ruolo di testimone. Il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo avvenuto a Roma può perfettamente essere seguito attraverso lo studio di un altro sarcofago, del IV secolo d.C., considerato il monumento più insigne della Sicilia cristiana, rinvenuto nel 1872 nelle catacombe della necropoli paleocristiana di San Giovanni a Siracusa. Conservato attualmente nel Museo Pio Cristiano al Vaticano, esso è conosciuto come il “Sarcofago di Adelfia” (fig. 3)dal nome della giovane sposa che, al braccio del marito, appare rappresentata a mezzo busto sulla fronte della cassa, all’interno di una grande valva di conchiglia, già simbolo di rinascita nella tradizione pagana e il cui significato allegorico venne pienamente ereditato dai cristiani come, di fatto, accadde per la quasi totalità della simbologia pagana.

Pochi, del resto, sono stati i cambiamenti apportati universalmente e nei secoli al rito del matrimonio che è, praticamente, rimasto invariato nella forma sia religiosa che civile dall’antichità fino ai nostri giorni come possiamo costatare in tre dipinti di epoche diverse: “Lo sposalizio della Vergine” (fig. 4), ora a Brera, che Raffaello trasse magistralmente, nel 1504, da una simile opera coeva del suo maestro, Pietro Perugino, ”Il matrimonio di Stephen Beckingham e Mary Cox” fig. 5), dipinto da William Hogarth nel 1796, conservato al Metropolitan Museum di New York e “Il matrimonio dello zar Nicola II”(fig. 6) dipinto nel 1895 dall’artista danese Laurits Tuxen. Come invariato è rimasto il rito anche le realtà che lo contornano rimangono simili. Quale differenza, infatti, è possibile ravvedere tra la gioia e l’allegria presenti nel banchetto di nozze contadine dipinto da Brueghel il Vecchio nel XVI secolo (fig. 7) e le festose e rumorose riunioni che in tutto il mondo seguono qualunque matrimonio anche dei nostri tempi? Malgrado tale indefessa aderenza alla tradizione, nel XVIII secolo le cose, però, incominciarono a cambiare se non nella forma, sicuramente nella sostanza spalancando le porte alla modernità. Al matrimonio visto unicamente come contratto da cui le parti contraenti dovevano trarre il massimo profitto –il marito acquisiva una moglie che doveva accudirlo, servirlo e dargli dei figli comperandola attraverso la dote dalla famiglia d’origine- si aggiunse un particolare mai preso in alcuna considerazione fino a quel momento e che, invece, da allora incominciò a diventare fondamentale nel matrimonio: il sentimento. Lo studio sociologico operato da William Hogarth nei suoi dipinti che riproducevano la realtà a lui contemporanea, della quale era uso mettere in mostra con caustica acredine peccati e debolezze, lo portò a prendere di mira proprio la totale mancanza di considerazione da parte delle famiglie d’origine sia dell’uomo che della donna di quello che i promessi sposi potevano provare l’uno per l’altra al fine di favorire unicamente gli interessi familiari. Nella serie di sei dipinti, eseguiti nel 1744,conosciuta come “Il matrimonio alla moda” egli si scagliò contro tutti i matrimoni combinati unicamente per interesse. Ne “Il contratto” (fig. 8), che fa parte di questa raccolta, un padre, nobile decaduto, pur di incamerare la dote offertagli da un ricco mercante desideroso di acquisire un nuovo e più alto status sociale, non si cura minimamente dell’indifferenza che mostrano l’uno verso l’altra i due giovani promessi che si danno le spalle in un angolo della stanza dove il contratto matrimoniale viene freddamente stipulato. Per la prima volta in secoli, davanti ai sentimenti, l’uomo e la donna vengono qui considerati in perfetta parità: entrambi, infatti, sembra dirci Hogarth, dovrebbero essere lasciati liberi di scegliere con chi veramente vogliono legarsi per il resto della vita senza che nessuno, nemmeno i familiari, li forzino per nessuna ragione a fare ciò che non vorrebbero.

A seguito di ciò, un secolo dopo, nell’800, il lato romantico del matrimonio lentamente incominciò a prendere il sopravvento. Seppur nel persistere del matrimonio d’interesse così radicato nella mentalità comune, ci fu chi riuscì a realizzare il sogno di coronare con questo un profondo sentimento d’amore che, nato nell’età più giovane, si era sicuri sarebbe durato fin oltre la morte superando ogni ostacolo come illustrato da Jean-Eugène Buland nel suo fresco e tenero “Matrimonio innocente” (fig. 9) dipinto nel 1884 o da Sir Frederic Leighton (fig. 9b) nel suo “Luna di miele del pittore” del 1864 in cui l’artista rende in modo perfetto quell’abbandono, quella fiducia e quell’alta e completa comunione spirituale e materiale di intenti così difficili da trovare, ma che, sin da allora, si ritenne auspicabile fossero presenti in qualunque unione matrimoniale. Goethe, amante delle scienze, già dal 1809, ne “Le affinità elettive” aveva cercato di dare una spiegazione razionale e scientifica a quella particolare attrazione tra un certo uomo e una certa donna da tutti ritenuta unicamente sentimentale e romantica. Basandosi, infatti, sulle teorie del chimico svedese Torbern Bergman che aveva scritto che, così come in natura, anche tra gli esseri umani, e quindi tra i sessi, alcuni si attraggono e altri si respingono, lo scrittore tedesco nel suo romanzo si rifece a quel particolare fenomeno chimico, allora ritenuto valido, secondo il quale due elementi fino ad allora congiunti, sotto l’azione di altri due, si dissociano per congiungersi a questi ultimi, formando, per attrazione, due nuove coppie.

Al filone sentimentale di Buland e Leighton , possiamo legare due dipinti dal forte impatto estetizzante che Sir Lawrence Alma Tadema dedicò tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 al corteggiamento (fig. 10) e al fidanzamento (fig. 11) che trovano il loro ideale compimento nell’eterea, anche se triste (non ha potuto coronane il suo sogno d’amore?), sposa liberty di Johan Thorn Prikker (fig. 12). E mentre Marc Chagall riempiva i cieli di sposi e spose romanticamente capaci di volare grazie alla forza dell’amore mentre i violini suonano e gli uccelli cinguettano (fig. 13), Oskar Kokoschka si faceva travolgere dalla passione (altro elemento nuovo introdotto nella realtà della coppia) per Alma Mahler nel suo “Sposa del vento” (fig. 14) dove si avverte tutta la tensione che l’autore provava al pensiero che un amore così totale e coinvolgente potesse da un momento all’altro finire. E con la passione anche alla sessualità venne riconosciuta una parte fondamentale nell’unione tra un uomo e una donna anche se per vederla universalmente riconosciuta bisognerà attendere gli anni ’70 del ‘900. Nel frattempo, artisti audaci come Gustav Vigeland (fig.15) e Tamara de Lempicka (fig. 16) negli anni ‘20/’30 ne decantarono nelle loro opere la forza prorompente, carica di energia vitale arrivando a riempire, nel caso di Vigeland, un intero parco di sculture dedicate all’argomento mentre la de Lempicka reinterpretava in chiave moderna l’unione tra Adamo ed Eva all’ombra dei grattacieli di New York come evidente invito alla coppia a mangiare finalmente “il frutto proibito”.

Ma il matrimonio, come sappiamo, non è solo romanticismo e passione, ma anche impegno e responsabilità. Ecco, quindi, che all’occhio acuto del divisionista Angelo Morbelli, sempre così attento alla realtà sociale, allo scorcio finale del XIX secolo non sfuggì l’espressione assorta e preoccupata, quasi triste di una sposa che avverte su di sé tutta la gravità dell’impegno che sta prendendo con il matrimonio a causa del quale la spensieratezza della giovinezza sarà presto un lontano ricordo (fig. 17). A questa fa eco, tra le due Guerre, “La sposa” (fig. 18) di Antonio Donghi che, pur nella solennità classica che distingue ogni particolare del quadro, nella precisione lineare di ogni singola piega dell’abito nuziale contraddistinto da grande eleganza formale, nell’esattezza costruttiva dell’immagine, mantiene intatto tutto il segreto turbamento che trapela dagli occhi della giovane che sembra andare verso qualcosa di più grande di lei che la spaventa e non sa come affrontare. La donna tra Otto e Novecento stava lentamente cambiando ed era desiderosa, seppur faticosamente, di mettere in luce le sue nuove esigenze di indipendenza dall’uomo. A parte lo sporadico esempio costituito dalla realtà preunitaria del Lombardo Veneto dominato dagli Austriaci, infatti, la dipendenza della donna dall’uomo anche nel matrimonio rimase invariata fin quasi ai nostri giorni e venne rafforzata negli anni ‘20/’30 con l’avvento del Fascismo; ecco forse il perché dello smarrimento della sposa di Donghi, divisa tra un desiderio di indipendenza e quello di avere una famiglia sua.

Bisognerà aspettare fino al 1975 per vedere finalmente giuridicamente riconosciuta in Italia la parità tra i coniugi e dare la possibilità alle donne di realizzarsi sia in campo professionale che familiare. Nell’istituzione matrimoniale, infatti, fino a non molto tempo fa, la donna era ancora usa prendere il cognome del marito arrivando ad identificasi con lui al punto che in Germania si usava chiamare, ad esempio, Frau Doktor (Signora dottore) la moglie di un medico e, negli Stati Uniti, una moglie diveniva addirittura Mrs. John Smith (la Signora John Smith) perdendo la sua identità personale per essere direttamente identificata con il nome e il cognome del marito.
Ma non è, comunque, solo la donna del XX secolo a provare smarrimento davanti al matrimonio. In un dipinto di Gianfilippo Usellini (fig. 19), pur uso a descriverci il lato favolistico della vita, ritroviamo una coppia di giovani appena sposati, sperduti in una immensa stanza da letto, affiancati nell’enorme e pomposo letto a baldacchino eppure estranei l’una all’altro, quasi immobilizzati a pensare, ognuno dalla sua parte di letto, a quella nuova vita su cui ognuno di loro si interroga spaventato e che è appena iniziata con quel velo da sposa che giace allungato in un angolo della stanza, solitario come loro che, malgrado la cerimonia, non si sentono e non sono ancora –e chissà se mai lo diventeranno- quel “solo corpo e sola anima” come questa imporrebbe. Chi sono questo uomo e questa donna che si trovano a condividere la vita “per sempre”? Due estranei senza volto sembra risponderci Magritte (fig. 20). Saprà l’unione, la conoscenza e l’amore reciproco dare un volto a ciascuno di loro? Il disagio nella coppia, sicuramente sempre esistito, diviene con il ‘900 palpabile e viene finalmente espresso. Ed è l’arte a farsi carico di questi infiniti turbamenti. Eppure tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 il matrimonio e la famiglia vennero pienamente rivalutati, persino da scrittori considerati ribelli quali Virginia Woolf. Il norvegese Ibsen, poi, pur interessato a descrivere l’impulso alla fuga della donna del nuovo secolo appena iniziato, seppe conciliare questo sacrosanto desiderio femminile con l’altrettanto prepotente bisogno di famiglia egualmente presente nella donna, anche la più emancipata, alla ricerca unicamente di un’unione fondata sull’amore vero e non sulle convenzioni sociali come accade alle protagoniste sia di “Casa di bambola” che de “La donna del mare”. Se è vero, dunque, che il ‘900 da un lato si è operato a distruggere la famiglia (Françoise Sagan ne offre un valido esempio) svelandone le ipocrisie borghesi è pure vero che in nessun secolo come in quello appena trascorso ci furono tanti scrittori e poeti che la cantarono.

L’estraneamento, la “non comunicabilità”, così tipiche dell’era contemporanea, però, continuarono e continuano a colpire la coppia che è considerata la base stessa del vivere in comune. L’uomo e la donna hanno disimparato a stare insieme, anzi, è meglio dire che debbono ancora veramente imparare a stare insieme secondo le nuove regole, tutte ancora da scrivere, che l’attualità impone. Finché, insieme, non riusciranno a trovare un punto d’incontro che permetta loro di salvare non solo la loro individualità ma anche il matrimonio essi saranno come nei quadri di de Chirico, Beckmann, Hopper (figg. 21, 22 e 23): affiancati sì, ma distanti, fino ad arrivare a voltarsi le spalle mettendo in crisi l’istituzione stessa su cui si basa la loro unione. Verso cosa va, dunque, la coppia moderna? È difficile dirlo. Botero con la sua fine ironia, mettendo in ridicolo una coppia convenzionale e tradizionalista (fig. 24) sembra volerci invitare ad andare verso qualcosa di nuovo e diverso, lasciandoci il passato alle spalle perché inadeguato alle esigenze odierne, quasi ridicolo. Ma noi esseri umani saremo davvero all’altezza di reinventare il matrimonio attualizzandolo alle esigenze della contemporaneità senza scadere, come spesso succede, in un inadeguato ritorno al passato, mancando così un’occasione di crescita di per tutti?

Fig. 24, Ferdinando Botero, Matrimonio
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